Le Ripetizioni- Giulio Mozzi – prime impressioni

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…dopo soli 3 capitoli …

Oggi niente TV.
Mi sono rifugiata sul vecchio divano, ho un nuovo libro da leggere. È l’ultimo libro di Mozzi, il suo primo romanzo, Le Ripetizioni. Lo leggo e ritrovo l’autore nella sua totalità, ritrovo il ritmo, lo stile, quel modo di penetrare nelle cose, di zummare i particolari nel tentativo di dare un nome a ogni gesto per poi demolirne il senso. Ma intanto che ti dice che nulla resta ha già impresso l’immagine nella mia mente e io so che quell’immagine resterà, così come sono rimaste tutte le immagini dei racconti già letti, alcune le ritrovo anche qui. Ed è confortante ritrovare pezzi di vite – di personaggi forse inventari, forse vissuti- già conosciute in letture precedenti. Da grande estimatore di Manzoni, Mozzi fa della sua letteratura una scrittura circolare, e fonde sapientemente realtà e invenzione consegnando al lettore nuove verità.

È davvero un’esperienza sempre interessante leggere Giulio Mozzi

M.B.

RIPETIZIONI di Giulio Mozzi

La domanda è:

dove finisce il vissuto e dove inizia l’immaginario?

È ricorrente questa curiosità leggendo le opere di Giulio Mozzi e in questo romanzo ancora di più.
Lo stile è inconfondibile, una firma inimitabile, è, più che mai, il punto di forza nella narrazione spoetizzata di un mondo in caduta libera.
Con esasperante normalità Giulio Mozzi ci propone azioni criminali moralmente inaccettabili e civilmente condannabili. La sua è una scrittura in bianco e nero, dove il bianco e il nero non assumono nessun significato, né mistico, né morale.
La narrazione scorre sul bordo affilato del dolore che nasce da un lutto passando poi attraverso l’abbandono per approdare nella rassegnazione. L’anafettivitá è il rifugio alla mancanza. L’anima giovanile impreparata al grande dolore congela gli affetti che restano imprigionati nei ricordi dell’infanzia quando fiducia e speranza non erano disattese.
La scabrosa sequenza delle immagini narrate diventa il normale  scorrere della vita del protagonista che, con balzi e rimbalzi, cerca un contatto solido e duraturo senza mai appartenere veramente a nessuna delle vite descritte. Ne risulta una personalità passiva e indifferente che diventa attraente, confonde ed esaspera.
È un romanzo palindromo. Tutto quello che succede negli innumerevoli 17 giugno si mischia e si confonde.
Non c’è nessun percorso formativo o di crescita, semmai un abbandono al declino guidato dal residuo di curiosità e trainato dal bisogno di annientare, dissacrare, esorcizzare tutto ciò che di buono può ancora ridestare il desiderio di uscire dal male interiore.
Della mia esistenza fisica sono sempre stato certo, pensa Mario, è sulla mia esistenza morale e piscologica che ho sempre avuto dei dubbi. Il mio corpo sono io, e per quante avventure abbia attraversate questo corpo è sempre rimasto il mio, è sempre rimasto io”
Il protagonista vive lontano dal un sé emotivo che è imprigionato nel passato aggrappato ad alcune foto destinate a sbiadire non nei colori, ma negli effetti e che finiranno col perdere il potere di rievocare i pochi sentimenti sopravvissuti.
È una vita come tante quella di Mario che trova la propria unicità nel mondo scabroso dei giochi sessuali o forse sarà una vita che banalmente sfoga la propria normalità nelle aberrazioni sessuali e diventa unica per la capacità di sopravvivere alle tragedie che scuotono l’animo sensibile?

monica bauletti

Le Ripetizioni – Giulio Mozzi – a metà del libro

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…a metà del libro…

Sono a metà del romanzo di Giulio Mozzi. È un libro che voglio leggere piano, gustarlo con calma, come un buon bicchiere di vino rosso, sempre rannicchiata sul vecchio divano che conosce le forme del mio corpo e asseconda ogni mio movimento. Ogni capitolo è una storia, un pezzo di vita nuda, spogliata delle vergogne e dei pregiudizi, offerta con semplicità, nessuna enfasi, nessuno scandalo, nessun dolore, eppure sconvolgente e penetrante per quanto cruda è la verità che trasmette, che insegna, che disegna nella mia mente. Episodi comuni colti con sensibilità non comune. Incontri casuali vissuti con attenzione e profondo rispetto. Ogni capitolo insegna qualcosa e mi rendo conto di quanta trascuratezza si accumula, ho accumulato nel tempo.

Con un po’ di  timore continuo a leggere curiosa di scoprire dove mi porteranno Le Ripetizioni.

M.B.

Le Ripetizioni – Giuglio Mozzi – a metà del libro

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…a metà del libro …

Sono a metà del romanzo di Giulio Mozzi. È un libro che voglio leggere piano, gustarlo con calma, come un buon bicchiere di vino rosso, sempre rannicchiata sul vecchio divano che conosce le forme del mio corpo e asseconda ogni mio movimento. Ogni capitolo è una storia, un pezzo di vita nuda, spogliata delle vergogne e dei pregiudizi, offerta con semplicità, nessuna enfasi, nessuno scandalo, nessun dolore, eppure sconvolgente e penetrante per quanto cruda è la verità che trasmette, che insegna, che disegna nella mia mente. Episodi comuni colti con sensibilità non comune. Incontri casuali vissuti con attenzione e profondo rispetto. Ogni capitolo insegna qualcosa e mi rendo conto di quanta trascuratezza si accumula, ho accumulato nel tempo.

Con curiosità e timore continuo a leggere curiosa di scoprire dove mi porteranno Le Ripetizioni.

M.B.

Vi presento la Cinciallegra

cinciallegra

Questo è un anno davvero molto strano. Anno bisesto, anno senza sesto, si dice, no? Eppure io dovrei esserci abituata, sono nata di anno bisestile quindi dovrei sentimi a mio agio nelle inconsuetudini. Eppure tutta questa inverosimile situazione è troppa anche per me.

Questa Pasqua ci ha caricati di tanto tempo. È come vivere un vuoto temporale dove ogni riferimento è momentaneamente sospeso. Una moviola che rallenta ogni gesto permettendoci di guardare e vedere finalmente quei particolari che vengono inghiottiti dalla fuga di una quotidianità sbagliata. Con questo virus la natura ci ha tolti dal “solito” e ci ha costretti a guardarla.

Alla fine chi può davvero dire di essersi annoiato in questo periodo di fermo forzato? Forse i poveri di spirito, gli aridi di cuore. Ma chi un’anima ce l’ha ha potuto guardare il mondo con una nuova e consapevole lucidità. Sapevate che gli uccellini cominciano a cinguettare quando ancora fa buio? E che i prati di primo mattino esalano profumi buonissimi? Io non me lo ricordavo più. Non mi ricordavo più la sensazione che si prova nello stare dentro i momenti.

Quando si vive proiettati nel momento successivo si sopprimono i sensi. Se il corpo è sempre un passo indietro rispetto alla mente come si fa ad ascoltare, assaporare, godere di quel che siamo quando lo siamo? Carpe diem è solo una bella locuzione che spesso evochiamo, ma che poco pratichiamo.

Monica

San Martino, tempo di castagne.

castagne.jpg

Impazzano nelle pizze le castagnate e orde di “castagnari” armati di rudimentali focolari e padelle forate diffondono fumi all’aroma delle caldarroste per vicoli e viali. È impossibile resistere. Almeno una volta in tutta la stagione si cede all’assaggio di questo prelibato boccone. Se fa molto freddo la soddisfazione diventa anche doppia, chi non ha mai provato a scaldarsi le mani con i sacchettini fumanti di castagne appena arrostite?

Ma siamo sicuri di sapere che cosa mangiamo? Cerchiamo di conoscere questo frutto prezioso. Un po’ di consapevolezza può aiutare a ad apprezzarlo come merita.

È un prodotto della terra che risale ad almeno 10 milioni di anni fa, ce lo dicono gli archeologi.

Invece nei testi scritti troviamo menzionate le castagne con diversi nomi:

Ippocrate (IV sec. a.C.) le chiama “noci piatte” e le usava come lassativo

Teofrasto (IV sec. a.C.) nella Storia Delle Piante le chiama “ghiande di Giove”. Con Catone il Censore (II sec. a.C.) prendono il nome di “noci nude” (De Agricoltura).

Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.) nel suo manuale De re rustica ci presenta la castanea, IMG_1831-1.jpgcome frutto degli innamorati, e ci dice che veniva offerto in dono dai giovani innamorati alle donne amate.

Pantaleone da Cofienza (secondo 400) ci insegna che la castagna con il latte e derivati costituisce un’alimentazione completa.

Durante i periodi di carestia, quando il grano scarseggiava, le castagne venivano macinate e con la farina ottenuta facevano il pane, Si può quindi affermare che la castagna è un surrogato dei cereali. Tant’è che si è valsa il titolo di “il cereale che cresce sull’albero” (Burnett).

Questo, e molto altro, è la castagna e questo è ciò che da sempre offre ai suoi abitanti la terra, non a caso la si chiama Madre terra, la più premurosa e paziente.

 

Monica Bauletti

 

 

L’invito a splendere di Giuseppe Catozzella

 

di Coralba Capuani

Un paio di mesi fa, circa, facendo zapping su una programmazione televisiva avvilente, mi sono imbattuta in una trasmissione di una nota radio nazionale che veniva trasmessa anche in tv. Mi sono detta: “bene, almeno provo ad ascoltare un po’ di buona musica”. Mentre ascolto la canzone, osservo tre uomini parlottare tra loro pensando, ovvio, che siano del mestiere; anche perché uno era Linus, l’altro Savino, e il terzo, a me sconosciuto, non poteva che essere un musicista!

E invece, con mio sommo stupore – ma anche ignoranza, e poi vi spiego il perché (ndr.) –, quando finalmente la canzone termina e le voci dei tre tizi che parlottavano vengono mandate in onda, capisco che non si tratta di un cantante/dj/rapper/musicista, ma di uno scrittore!

Allora, curiosa di confrontarmi con un “collega”, resto ad ascoltare la trasmissione.

Prima di tutto il tizio dice cose interessanti, cose in cui mi riconosco, e il che mi riconsola perché se il “collega” è giunto alle mie stesse conclusioni tecniche sul modo di affrontare un romanzo, beh, allora devo essere almeno sulla buona strada, fiuuu, che sollievo!

Poi il tizio inizia ad accennare al suo ultimo romanzo, e, a sentire il modo in cui ne parla, giuro, rimango folgorata. No, mi sono detta, io questo romanzo lo devo leggere assolutamente!

È così è stato, infatti.

Ed è per questo che voglio condividere con gli amici di Letterando questa bella lettura.

Il romanzo si intitola E tu splendi, e l’autore, il “tizio” che raccontava alla radio, si chiama Giuseppe Catozzella; vi basti dire che, tra le altre cose,  ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo best seller Non dirmi che hai paura, vincitore del Premio Strega Giovani e finalista al Premio Strega. Non proprio un esordiente quindi…

(La biografia ufficiale la potete trovare qui: http://www.giuseppecatozzella.it/biografia/)

E tu splendi narra l’estate di due bambini, Pietro e Nina, che, rimasti orfani della madre, vengono mandati a trascorrere le vacanze estive ad Arigliana, un piccolo paesino dell’entroterra lucano, luogo dal quale tanti anni prima i genitori erano partiti per “cercare fortuna” al Nord. Questa vacanza “speciale” offre all’autore lo spunto per parlare del Sud, dei problemi atavici che da sempre lo affliggono, del suo passato, dell’emigrazione dei suoi abitanti, ma non solo. Il romanzo, infatti, è anche un’occasione per riflettere sul presente, su problemi di stretta attualità come l’emigrazione da paesi extracomunitari; di popoli, cioè, che stanno ancora più a Sud del profondo Sud della Basilicata, regione nella quale si trova il paese di Arigliana.

Luogo arcaico, fossilizzato su un passato che sembra immutabile e, dove, citando un passo del romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, “Cristo non è mai arrivato. Né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia”. Ebbene, in questo luogo dove a regnare, da secoli, pare essere solo un immutabile immobilismo, proprio in quell’estate avviene un episodio che sconvolgerà le esistenze non solo degli abitanti di Arigliana, ma anche dello stesso Pietro, voce narrante del romanzo. Nella torre normanna che si staglia tra le mura di pietra delle casupole di Arigliana, Pietro trova una famiglia di immigrati che, fuggiti dal loro paese, grazie anche al buon cure di don Eustachio, parroco di Arigliana, hanno trovato rifugio all’interno della torre. Sono sporchi, macilenti, impauriti, quattro ossa che non si reggono neppure in piedi, gente che non metterebbe paura a nessuno. Eppure il paese li teme. Gli ariglianesi hanno paura di loro; che gli rubino il lavoro, che si prendano le mogli/i mariti, che portino la sfortuna nelle loro case, e via dicendo.

Non sarà facile per gli stranieri ambientarsi, farsi accettare in qualche modo, ma proprio quando sembra che un compromesso sia possibile, che un cambiamento positivo possa rimettere in moto non solo le loro esistenze, ma anche quelle di tanti altri segnate dall’ingiustizia e dalla prepotenza del più forte, del furbetto di turno, del disonesto, ecco che una tragedia si abbatte sul paese. Una disgrazia che è tale e quale a quella che tanti anni prima si era accanita contro molti poveri zappaterra, tra i quali anche il nonno di Pietro, detto lu Possident.

E con la trama mi fermerei qui perché credo che non ci sia nulla di meglio di leggere il romanzo per sapere il resto delle vicende dei protagonisti. Mi soffermerei però un momento sul finale, più precisamente sul suo significato, ovvio senza svelare troppo. Il romanzo è particolare anche perché sembra contenere un doppio finale. Il primo, amaro, che è quello dei “vecchi”, dei “poveri”, degli “immigrati”, degli “ultimi”, quelli la cui ribellione sembra sempre portare al fallimento perché, sulla loro strada, saranno sempre destinati a trovare uno zi’ Rocco che li sfrutterà rendendoli ancora più poveri, ancora più umili, ancora più “ultimi”. Una maledizione che non sembra avere mai fine, destinata a ripetersi, immutabile, nel corso dei secoli. È la storia del ricco che sfrutta il povero per arricchirsi ancora di più alle sue spalle, è la parabola del disonesto, del colluso con il potere e che, quindi, in un modo o nell’altro finisce per farla sempre franca. È l’eterna lotta tra poveri che si scannano tra di loro per un tozzo di pane incolpandosi l’un l’altro di rubarsi qualcosa, che sia il lavoro, la terra, o il pane. E in questa storia di miseria gli ultimi tra gli ultimi sono sempre gli emigrati, che provengano da una nazione straniera o siano semplicemente italiani del Sud, perché, come dice con rassegnazione il nonno a Pietro: “finché in un posto ci saranno degli stranieri, sarà sempre colpa loro”.

Ma E tu splendi è anche un romanzo di formazione, un percorso di crescita e di maturazione del protagonista Pietro che non sa accettare la morte di sua madre e che la cerca di continuo nonostante la presenza costante di Canetto – il dolore che Pietro e Nina hanno ribattezzato perché assomiglia a un cucciolo che, volendo giocare, finisce per morderti e farti male. Nina a un certo punto trova la forza di respingerlo questo cane fastidioso, Pietro, invece, ha bisogno di più tempo. Ha bisogno di scontrarsi con la delusione, con la falsità delle persone come suo cugino il sindaco. Di affrontare la diversità degli stranieri, il razzismo, la prevaricazione verso i più deboli, la disonestà e la tracotanza di ’zi Rocco. Ma, soprattutto, ha bisogno di una risposta.

E, più precisamente, la risposta alla domanda che avrebbe voluto fare a sua madre prima che uscisse per l’ultima volta da casa loro per non tornare mai più. E la chiave di lettura, il finale positivo del romanzo, sta tutto in quella frase tratta da una trascrizione sbagliata di uno stralcio delle Lettere luterane di Pasolini. Un invito a trovare la forza di “splendere” nonostante tutto, nonostante il dolore e le brutture della vita. Ma è anche, o soprattutto, un invito che Catozzella sembra rivolgere direttamente a quella terra dolente che è, poi, il Sud tutto.  Un’esortazione a non seguire “i destinati a essere morti”, vale a dire i tanti zi’ Rocco, i disonesti, ma anche i delusi, chi non si ribella accettando supinamente il proprio destino di sottomissione e sfruttamento. Perché questo è proprio quello che le persone come zi’ Rocco vogliono, perché essi, sembra dirci Catozzella, “ti insegnano a non splendere”. E invece l’autore, attraverso la voce ingenua e allo stesso tempo profonda di un bambino, rivolgendosi a ciascuno di noi, ma, soprattutto, rivolgendosi a quella terra dolce e amara, piena di miserie e di saggezza, pare voler dire: “i destinati a essere morti ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece”.

Proprio come in Catozzella splende, nonostante tutto, l’amore per la sua terra piena di contraddizioni e di bellezza.

 

In vacanza con Andrea Vitali

Recensione del romanzo “Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti”

di Coralba Capuani

Andrea Vitali non è uno scrittore, ma un’agenzia di viaggi.

Perché aprire un romanzo di Vitali non significa affrontare una semplice lettura che ti emoziona, ti commuove, ti fa riflettere, o, più spesso, ti fa sorridere, quando non scappare una risata di vero cuore.

No, quando si acquista un romanzo di Vitali la prima cosa da fare è iniziare a preparare la valigia. Una valigia metaforica, d’accordo, ma proprio non riesco ad associare ad altro che a quest’immagine il gesto di accomodarsi su una sedia, divano, poltrona, letto che sia, mettersi in grembo il libro di Vitali e, finalmente, aprirlo.

Si inizia!

Si parte!

E ogni volta è come rincontrare persone conosciute durante la precedente vacanza, anche se i personaggi e le storie sono diverse, se non addirittura i periodi storici. Tuttavia quell’impressione di ritorno a casa, in un ambiente domestico già visitato, è ciò che si prova ogni volta che ci si accinge ad affrontare una nuova storia nata dalla mente immaginifica di questo prolifico autore.

E ogni volta pare di sbirciare da dietro una persiana semichiusa lo svolgersi delle vicende di questi strampalati personaggi che l’autore mette in scena. Poco importa che il lettore si trovi a seguire le scarpinate della Stampina fino alla canonica di don Pastore, prevosto di Bellano (e poteva forse essere altrimenti?) a causa delle preoccupazioni che gli dà il Geremia, quel suo figliolo strambo di cui in paese si mormora gli “manchi qualche giovedì”. Oppure scrutare l’interno della canonica di quel santo uomo del don Pastore, cui ogni volta tocca consolare, dare consigli e tranquillizzare la povera Stampina. Quando non origliare i commenti di Rebecca, perpetua di Don Pastore, impicciona e convinta di vedere l’opera del diàol  ogniqualvolta in paese capita qualcosa di strano o bizzarro. E non è cosa strana e bizzarra, e quindi opera del diavolaccio malefico, che un tonto come Geremia si vada a invaghire di Giovenca Ficcadenti, merciaia dall’appariscente bellezza, comparsa da poco in paese insieme a sua sorella Zemia, piccola, secca e brutta che “a incontrarla di notte c’era da credere che i morti ogni tanto uscissero dalla tomba”? Una “scheletraglia”, la definisce l’autore con un’espressione a mio avviso geniale nella sua spietatezza.

Il lettore diventa, quindi, un abitante di Bellano, un villeggiante che fitta casa in una delle sue vivaci viuzze attraversate da questi bizzarri tipi umani, gente sopra le righe a partire dai loro inusuali nomi di battesimo: Giovenca, Stampina, Rigorina, Zemia, o Editto Giovio, il famoso “Notaro” in Como. Ma anche il poetastro Novenio, innamorato della bella Giovenca a cui dedica improponibili poesie d’amore plagiando le opere di un “collega” vagamente più famoso di lui, ovvero Gabriele D’Annunzio. Come resistere alla comicità di certe scene descritte nel romanzo, una su tutte: la dichiarazione d’amore di Novenio, pretendente di Giovenca, il quale al fine di conquistare la ragazza le declama i versi del Vate. Come restare impassibili quando il giovane, sopraffatto dall’esaltazione (o sarà forse qualcos’altro?) finisce per fuggirsene tra gli arbusti: «urlando come un ossesso, tanto che quando Giovenca aveva aperto gli occhi il Trionfa non era altro ce un puntino nero dentro al coltivo di ravizzone, agitato come uno spaventapasseri sconvolto dal vento».

Ma a ruotare attorno ai personaggi principali vi sono una miriade di personaggi minori, a volte semplici comparse, che, però, nonostante questo, Vitali si premura di descrivere in profondità condensando la loro esistenza in poche righe rendendoceli vivi, umani, fatti di carne e ossa. Perché i personaggi di Vitali non sono mai caricature, e, pur se a volte (spesso) bislacchi, non cadono mai nella macchietta conservando sempre un loro tratto umano, tanto che al lettore potrebbe tranquillamente capitare di imbattersi in una loro copia nella vita reale.  E questo lo sa bene chi abita in un piccolo paese dove ci si conosce tutti e dove ogni abitante ha quel briciolo di pazzia che i personaggi di Vitali esprimono all’ennesima potenza.

È come, in sostanza, se Vitali prendesse quel pizzico di stramberia contenuto in ognuno di noi moltiplicandolo e ingigantendolo, cosicché se in un paese “normale” magari di strambi ce n’è al massimo un paio, nel mondo fittizio dei romanzi di Vitali gli “strampalati” si trasformano in un caleidoscopio di personaggi originali e fuori dalle righe, pur tuttavia rimanendo sempre realistici. Gente, insomma, che il lettore può benissimo incontrare per strada.

Perciò ogni volta che una storia finisce, che il libro viene chiuso, il lettore è assalito da un senso di malinconia; lo stesso che ci prende alla fine di una vacanza a lungo attesa. Così, quando ce ne saliamo sul nostro bel treno che ci riporterà a casa, alla nostra grigia routine, aspettando di avvertire il fischio del capostazione che dà l’ordine di partenza alla locomotiva, mentre ci soffermiamo ancora una volta a osservare  i volti dei personaggi, venuti apposta in stazione per salutarci, ci viene il magone all’idea di dover abbandonare quelle facce, quelle esistenze divenute ormai così familiari. Anzi, in qualche modo proprio persone  “di famiglia”.

Però, a questa struggente sensazione di malinconia, al senso di perdita, si mescola, la speranza, nonché la consapevolezza, di un prossimo ritorno. Magari dovranno passare molti mesi (forse anni?) prima di tornare a concederci la nostra bella vacanza in quel di Bellano, ma di sicuro siamo certi che non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci.

E allora, quando sarà tempo, torneremo a preparare la nostra valigia pronti per partire di nuovo alla volta di Bellano, desiderosi di affrontare un nuovo viaggio e nuove avventure, affidandoci ancora alla comprovata professionalità della nostra agenzia di fiducia: la “Premiata Ditta” agenzia viaggi Vitali, appunto!

 

Intervista a Osvaldo Neirotti

Ciao Osvaldo, benvenuto sul blog di Letterando.

Per prima cosa una curiosità: come ci hai conosciuto e perché hai scelto noi?

Ciao, innanzitutto grazie della bella opportunità. Oggi, infatti, nel calderone della comunicazione, farsi conoscere non è mica semplice!
Vi ho conosciuto tramite un amico scrittore che un anno fa, circa, aveva raccontato la sua storia tramite la vostra “rubrica”.
Presentati ai nostri lettori, chi sei e cosa fai quando smetti gli abiti di scrittore?

Mi chiamo Osvaldo Neirotti e sono alla mia prima pubblicazione. Sono tra quei “fortunati” che sono riusciti a raggiungere il cuore di un editore (Il Viandante). Gli ho inviato il progetto del Libro e del Gioco e il manoscritto “X Segreto”, lo ha apprezzato e da poco è stato presentato al Salone del libro 2018 di Torino.

Sono sposato, ho una bellissima figlia di undici anni, e contribuisco all’economia famigliare con un modesto lavoro part-time, trovato grazie ad un amico dopo che ho perso il lavoro. In realtà l’ho lasciato perché hanno smesso di pagarmi…
Quando non scrivo dipingo, scolpisco e gestisco un movimento artistico concernente tutte la arti. Sono co-fondatore di GoArtFactory, un movimento che, come mission, ha l’obiettivo di portare l’arte alla gente, di ogni forma e natura.
Come è avvenuto l’incontro con la scrittura? È stato un processo lineare, una scoperta recente o è stata una passione accantonata e poi recuperata?

Ho sempre scritto per me: aforismi, brevi racconti e qualche storia. La perdita del lavoro retribuito mi ha indirizzato verso nuove strade e ricerche, al punto che tra i vari e molteplici inutili annunci (uno è emerso in un anonimo giornale) me ne è saltato all’occhio uno in particolare. Nell’annuncio si cercava un disegnatore per realizzare un gioco di carte online e da subito mi è parso interessante, così ho creato circa 150 carte da gioco.
Tutto bellissimo tanto da sembrare un sogno fino a quando, però, il compenso è franato in una bugia. Perciò ho deciso di non concedere i diritti e le carte sono rimaste di mia proprietà. La bellezza, nella disperazione di aver perso un’occasione a quarant’anni, si è manifestata nella scrittura. Tutte le carte le ho realizzate ispirandomi a persone realmente conosciute, esse si sono incastrate in un racconto formatosi nella mia mente quando le dipingevo, pertanto non è stato difficile  completare i primi due libri.
Quanti libri hai scritto e quale genere tratti?

Tanti personaggi comportano una storia importante, pertanto ho deciso di distribuire la trama in tre libri, due dei quali già scritti e il terzo in stesura. Il primo l’ho scritto e gli ho dato il titolo “X Segreto”.
Derivando dal settore marketing mi è stato facile studiare le persone, ho creato personaggi attuali, personaggi di ogni età e ceto sociale. Racconto della vita e della società attuale attraverso un vestito fantasy, dove orchi, elfi, umani, gnomi e altre creature vivono in un unico ambiente e la bontà o la cattiveria non è data dalla natura, ma dalla propria indole come avviene nella vita reale.
Ci parli dei tuoi romanzi?

La genesi del libro è la vita stessa e le esperienze che ho acquisito. Ma se vogliamo posso indicarvi una data precisa: il 24 maggio 2015 sul ponte del Diavolo mentre osservavo la natura.

Tu sei un esordiente e spesso molti tuoi colleghi ricorrono all’autopubblicazione, tu cosa ne pensi, meglio avere alla spalle una casa editrice o chi fa da sé fa per tre? Com’è stata la tua esperienza in proposito?

Come detto precedentemente, sono uno dei fortunati che è riuscito a farsi leggere da un editore, ma se devo essere sincero credo sia indispensabile, per aspirare al successo, entrambe le alternative. L’autopubblicazione è una realtà attuale, ma a mio parere l’ultima spiaggia. Purtroppo sappiamo tutti come funziona in Italia, il mondo dell’arte (pittura, musica, scrittura …) in generale è in mano a pochi e questi pochi la gestiscono a seconda del vento, delle amicizie, della casualità, del ritorno economico, spesso escludendo la qualità. Mi sono affacciato al mondo della scrittura cercando di comprendere questa realtà confrontandomi con quella di altri paesi, Inghilterra e Stati Uniti per esempio. I libri in questi stati sono la base della cultura, del cinema, dell’illustrazione, del teatro, dell’arte, dei college, degli attori ecc., perché vige
un metodo diverso che sostiene una economia enorme, forse paragonabile al business del nostro calcio. La realtà attuale porta a dover darsi da fare, è impensabile creare un’opera e al termine pensare che si venda da sola, inoltre bisogna considerare se il creatore ha le possibilità economiche oppure no. Nel primo caso l’unica cosa che può fermare il successo è la poca qualità, nel secondo caso il vile denaro. Io ho preferito considerare una terza soluzione, crearmi l’opportunità. Arrivare ad un editore attraverso social, contatti, perseveranza e testa dura; una volta pubblicato approfondire il marketing, studiare campagne promozionali, leggere libri di comunicazione, creare eventi per sensibilizzare il pubblico, studiare, e non perdere mai di vista l’obiettivo.
Progetti futuri? Grazie per essere stato dei nostri e a presto!!!

Progetti futuri sono ben impressi nella mia lista mentale: vendere molte copie di “X Segreto” in modo da poter suscitare l’interesse di realtà editoriali e commerciali non solo italiane, pubblicare il secondo libro, pubblicare il gioco di carte e di ruolo le cui immagini sono già presenti nel web, pubblicare il terzo e conclusivo romanzo e i 20 racconti già abbozzati, che parlano dei venti personaggi protagonisti.
Per questa risposta mi sono soffermato su parole legate al mondo dell’editoria, ma di certo non tralascio la pittura, la scultura e l’espansione del movimento GoArtfactory che oggi conta circa 650 artisti che seguono queste mie idee condivise con il co-fondatore Giorgio Bologne.

Pagina ufficiale di Osvaldo Neirotti

https://www.facebook.com/Osvaldo-Neirotti-182588062469423/

X Segreto

come contattare l’autore

osvaldo.neirotti@gmail.com

“Egli si trova tra due mondi, il presente di una piccola realtà piemontese fatta di famiglia, società e l’immaginario dei racconti che spesso aiutano a scoprire verità, ma anche a nascondersi. Etrar è il mondo raccontato, l’altra faccia di noi stessi; ospita personaggi fantastici che traggono origine da miti e leggende della nostra storia. Si racconta di maschere che influenzano la vita di venti amici, una ribellione da se stessi, un racconto che parla al lettore di come trovare le proprie verità. Spesso basta un piccolo sussulto, un attimo, un battito di ali per cambiare.
Solo scopre che è rinchiuso in una prigione, scappa, corre e si nasconde; sta per uccidersi quando trova l’amicizia di un drago. Inizia a credere che al di fuori dei propri pensieri c’è una vita…”  

 

L’ONDA SACRA DEI SOGNI

Come si scrive un bestseller?

Convention  #SUGARCON17  Sugarpulp17 21- 24 settembre 2017 Padova/Rovigo
#speeddate @matteostrukul – 

 https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10156295195554947&id=38993124946

sugarpulp17

Di primo acchito il pensiero è stato: “Perdete ogni speranza voi che entrate” nel mondo dell’editoria. E concedetemi la famosa citazione. 

Poi mi son detta che NO!

Non permettiamo a nessuno di rubarci i sogni. 

Ecco! Quindi galoppiamo decisi l’onda sacra dei sogni.

Però una scappatella nella selva oscura la facciamo lo stesso perché è proprio lì che fornicano i “guru” dell’editoria.

Alla convention  #SUGARCON17 offerta da Sugarpulp17 #speeddate @matteostrukul, nella mattina di domenica 24 settembre a Arquà Polesine sono stati intervistati due editor: Alessandra Penna (NewtonCompton) e Fabrizio Cocco (Longanesi).

Il moderatore ha posto loro la terribile domanda:

-Come si scrive un bestseller?-

Ma, mi chiedo: davvero esiste una risposta a questa domanda?

I due   m a l c a p i t a t i  hanno anche provato a rispondere. Più che altro: hanno dovuto. Erano lì, col microfono in mano, in una stanza piena di gente che voleva sapere. Forse, o forse voleva sentirsi dire che a scrivere sto agognato capolavoro ce la possono fare. E chi lo sa? Tant’è che i due editor hanno cercato di dare delle indicazioni portando qualche esempio, ripescando tra passate esperienze e casi editoriali dell’ultimo periodo. Ma in questo tipo di discussioni le contraddizioni si sgambettano e lo sgambetto si divertono a farlo soprattutto a chi ci crede troppo.

Una verità che non teme smentite è che ogni discussione sull’editoria finisce col perdersi in un dedalo di non regole. Sembra che la ricetta per sfornare “IL Romanzo” non la conosca nessuno.

Men che meno gli editor e i consulenti editoriali che si trovano schiacciati tra scrittori e editori come tanti cuscinetti vertebrali.

È successo, succede e succederà che l’editor non colga l’Xfactor nascosto tra le righe di un’opera perdendo l’occasione di schedare il libro rivelazione dell’anno. Errori di questo bruciano parecchio e fanno anche più male di una ernia. Comunque, ernie da sfiancamento per l’eccessivo carico di lavoro sono comprensibili e, nel corso di una carriera da editor saranno molti a portarsi il rammarico di non aver capito di aver avuto per le mani il libro che poteva segnare la tanto ambita svolta letteraria.  Non lo ammetteranno mai, infatti anche gli intervistati hanno giustificato la distrazione con motivazioni a loro non imputabili, spesso attribuendo il rifiuto alle linee editoriali della casa editrice per cui lavorano, oppure alla richiesta di mercato.

Io diventerò impopolare e gli editori/consulenti editoriali mi lanceranno sguardi di sdegno e disprezzo, ma penso che se un libro è Il Libro, diciamolo, non c’è scusa che tenga. L’editor che se lo lascia scappare è solo un editor che ha sbagliato e non ha capito.

Quindi che dire? La componente Fortuna in certi ambienti può fare la differenza, come pure la simpatia e la notorietà.

L’autore esordiente ha voglia di leggere Hemingway,  Calvino, Dostoevskij, Pennac, Pasolini, Dario Fo… per prepararsi a scrivere la sua opera,  perché, in certi casi,  anche se scrivesse come Manzoni e proponesse un Promessi Sposi moderno, nessuna casa editrice oggi lo pubblicherebbe. Oggi.

Quindi, a detta dei guru dell’editoria, nessuno ha colpa se vengono pubblicate ciofeche e invece potenziali best sellers rimangono a marcire nei cassetti: perché non è colpa dell’autore sconosciuto che si è consumato i polpastrelli sui tasti. Non è colpa della CE che deve pubblicare per vendere e mantenere in attivo il bilancio. Non è colpa dell’editor che segue le istruzioni della CE per cui lavora e annaspa tra montagne di manoscritti. Non è colpa del pubblico leggente che alla fine compra e legge ciò che gli propongono.

E allora a chi diamo la colpa?

Al fato.

Ma se l’ordine degli eventi non è modificabile nulla impedisce all’autore esordiente di continuare a scrivere e migliorare e scrivere e migliorare e scrivere…

A questo punto, e arriviamo al punto, viene spontaneo chiedersi: quanti sono i romanzi belli, bellissimi, che giacciono sotto pile di ciofeche? E soprattutto: quanti sono i mittenti/scrittori scoraggiati dai rifiuti che ripongono i sogni nel cassetto per poi dimenticarli?

Le delusioni sono sogni insoddisfatti. Non lasciamo morire i sogni, non soffochiamoli, facciamoli vivere, crescere, esplodere.

Direte voi: è una selezione naturale, ci sono troppi scrittori. Troppa gente scrive non si può pubblicare tutto.

Certo. Nessuna obbiezione.

Ma c’è l’onda dei sogni, l’onda sacra che bisogna cavalcare finché vita c’è per non morire dentro.

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10156295195554947&id=38993124946

 

 

PERFETTAMENTE IMPERFETTO (della serie: certe notti sarebbe meglio dormire)

E se fosse la spasmodica ricerca della perfezione a renderci intolleranti al vero?

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“la perfezione non esiste” C’è sempre qualcuno a ricordarcelo. E se la perfezione fosse proprio l’imperfezione?

-Stato, qualità di ciò che è eccellente, esente da difetti, non suscettibile di miglioramenti- (Treccani)

Quindi?

Ciò che mi piace è eccellente. Ciò che mi soddisfa non ha bisogno di miglioramenti e, audite audite: ciò che mi attrae non è esente da difetti.

Ergo: l’imperfetto è perfetto.

C’è la “solita corrente di pensiero” che sancisce che cosa, chi, come devono essere le cose per piacere a un maggior numero di persone. E otteniamo i canoni: – criterio o regola di scelta che deve servire per la conquista o la dimostrazione della verità. Elenco di opere o di autori proposti come norma, come modello …, e quindi elenco in genere-  (Treccani. Continuo a prendere da lì solo perché è aperto già il dizionario, non perché è la regola e nemmeno perché è perfetto, neanche perché detta i canoni).

Se sei nei canoni allora sei perfetto.

Se rispetti le regole allora sei perfetto.

Se sei privo di ombre e macchie allora sei perfetto.

Insomma se sei banale, noioso e invisibile, sei perfetto.

A questo punto io rilancio: “Il troppo stroppia”.

E sì signori miei. Questa è la mia verità. Certe bozze sono più interessati dell’opera compiuta. La vera essenza di certi autori arriva senza i filtri dettati dai canoni. E ora dirò una cosa che mi renderà molto impopolare: votarsi a uno stile, rientrare nei canoni, rispettare le regole rende un’opera noiosa, banale e invisibile e quindi perfetta o imperfetta?

E ora mi do il colpo di grazia: diventare perfetti scrittori, vantare diplomi conseguiti a suon di corsi ripetuti alla ricerca di un titolo legittimamente conseguito, conferisce il potere di scrivere l’opera perfetta oppure rischia di incanalare il flusso creativo nei canoni, regole, e appiattimento della banalità?

Questo volevo dire e ho detto, e vaffanculo a chi mi vuole perfetta.

La verità rende liberi, sempre.

La perfezione?, e  chi lo sa?

Monica Bauletti

la solitudine è uno stato mentale e non una situazione di fatto

Un giorno un’amica mi disse che la solitudine non esiste. Che è solo uno “stato mentale non una situazione di fatto”. Da allora mi frulla in mente questa cosa e ogni volta che mi sento sola ripenso alle sue parole. Oggi ho voluto approfondire questo concetto e ho trovato un bellissimo brano che propongo a tutte le anime solitarie che sole non saranno mai.

solitudine

la solitudine è uno stato mentale e non una situazione di fatto

di Riccardo Bandini

http://www.poetipoesia.info/la-solitudine-e-uno-stato-mentale-e-non-una-situazione-di-fatto/

La solitudine è uno stato mentale e non una situazione di fatto
Non si è soli se non si trova nessuno fisicamente vicino
Ma se non si trova nessuno con cui condividere un pensiero
Che può durare un tempo indefinito
Da qualche attimo
Ad infiniti istanti

Si è soli se i nostri pensieri restano
Nella nostra mente e li si spengono
Senza che nessuno li senta

Si è soli quando si ha desiderio di dire
E nessuno è li pronto a sentirti

Mentre la neve si posa
Bianca e nera sul tetto della mia macchina
I bagliori perlacei
Ti investono nella luce dei tuoi anabbaglianti
E ti vedi dentro un cielo di stelle
E asteroidi
Che in silenzio attraversano il tuo spazio
E sei veloce nell’attraversarli
E più veloce corre il tuo pensiero
Dietro alle perle che sfuggono
Dietro di te

Mentre bevi un wiskey
E senti musica
Fuori corre il tempo
Ed imbianca il tutto come i tuoi capelli
E tu sei sospeso tra i fiocchi di neve

La stufa illumina le tue stanze
A tratti e piccoli bagliori rossi ed aranci
E pensi che il tuo tempo non è sincrono con il tuo pensiero
Con il tuo desiderio

Non sai se sei vecchio o giovane
Quanto dura la tua vita
Quanto è lungo il percorso

Ma fuori di te il tutto ti cataloga
E ti giudica
Per i tuoi capelli bianchi e il tuo sguardo
Lungo e distaccato
Come la memoria dei tuoi ricordi
Delle tue emozioni consumate nel tempo
E posate ad una ad una sulla tua pelle
Come la neve che cade
E goccia dopo goccia
Fa bianca la strada che stai percorrendo

Un blues suona la sua chitarra
Ma non sei nella storia che suona e canta
E sei nella storia che suona e canta

Allora bevi un altro sorso del wiskey
Che sul tavolino aspetta
Gli amori che non riesci a collocare
Che giacciono nel letto dei tuoi sogni
Ed aspetti che i minuti si accavallino
Fino a sentirti disfatto

E non sai chi sei
Saluti gli amici
Le amiche
Senti sfuggire dalle dita
Un qualche cosa che non
Sai cosa è ma che ti disturba

E premi una tastiera in cerca di conferme
Che non possono arrivare da lei
Ma tramite lei
Ti aggrappi alla tua solitudine e corri nel
Funky che ora rimbomba nei tuoi orecchi

Ma sei neve e ti scioglierai come lei
Al primo calore
Tornando alla terra
Sulla terra
Pronto a volare ancora

Perché in fondo
Tu sai che tutto questo è falso
È un mito che ti sei creato
Ma non esiste
Come non esiste ne lei ne lei ne lui

20 gennaio 2013

 

UN SIMPATICO IDIOTA FELICE

   Lo scrittore esordiente,

vita dura?

KERINT SCRIVENTE

Succede che quella cosa che brulica dentro allo stomaco a un certo punto si espande. Il primo pensiero è: “che sia un tumore?”. No, non lo è. Oddio, potrebbe anche essere visto come una malattia, qualcosa di incurabile, non contagioso, ma che può diventare terminale. I sintomi sono anomali, non ben inquadrabili in nessuna patologia conosciuta in medicina. Si alternano stati di euforia a momenti di depressione. Ma procediamo con ordine. Si comincia con un momento di particolare benessere. Una leggera eccitazione induce fantasie e visioni singolari che spingono il “malato” a prendere carta e penna per scrivere una frase che diventerà un periodo fino a diventare una scena. Bene, la prima idea ha preso forma e abbiamo realizzato un incipit. A questo punto l’euforia è in metastasi. Ogni cellula è coinvolta. Il corpo e la mente diventano tutt’uno e subentra l’effetto anestesia. Ogni pensiero è dentro la nostra storia. Potete anche evitare di parlare con l’”aspirante”, a meno che non gli chiediate di quello che sta scrivendo, a che punto è, di che cosa parla ecc. ecc.

Non sarà capace di parlarvi d’altro. Nessun argomento lo potrebbe distrarre dalla trama che sta vivendo. Quindi armatevi di pazienza e lasciatelo vivere nel limbo in cui si trova, lui sta bene solo lì. Il fascino della creazione è proprio questo: l’euforia e il coinvolgimento totale, lo stato di benessere e una sorta di gioia che illumina gli occhi e accende il sorriso. Insomma, potete riconoscere uno scrittore esordiente perché ha un sorriso idiota stampato sul viso, cammina a un metro da terra e parla da solo. Ah, dimenticavo: non vi ascolta quando parlate anche se sembra attento, non illudetevi, finge. Ma non vi preoccupate, (o forse sarebbe meglio preoccuparsi, non so) appena il romanzo sarà finito tutto questo passerà. La prognosi varia da soggetto a soggetto e per genere di romanzo. C’è chi esaurisce questa fase in pochi mesi chi impiega anni, ma tutto rientra nel quadro clinico. Quindi, superato rash la malattia entra nella fase acuta e, ahimè diventa irreversibile. Lo scrittore esordiente non riuscirà più a smettere di scrivere, l’assuefazione è incurabile. KERMIT DROGATO

Non esiste droga, alcool, medicina che possa frenare il bisogno che sente. La mente produce immagini continuamente e tutto diventa storia raccontabile. Il confronto con il lettore è la fase immediatamente successiva. Se siete vicini a uno scrittore esordiente siete condannati: dovete leggere tutto quello che scrive, volenti o dolenti, non avete via di scampo. Rassegnatevi, ma ormai lo siete già. Per tutto il periodo che ha scritto, l’autore emergente vi ha preparato a questo momento e sapevate da tempo che sarebbe arrivato. Quindi con pazienza e condiscendenza leggerete il suo libro che peraltro conoscete già, sapete già di che cosa parla ecc. ecc., ma lo leggerete ugualmente e ne parlerete bene perché non ne potete fare a meno. Se avete coraggio e se lo ritenete possibile, azzarderete qualche critica, ma proprio da niente, velata da qualche complimento, così per farla ingoiare senza che nemmeno se ne accorga. Ora però serve un confronto obiettivo e a questo punto i mezzi sono molti, ma i risultati pochi. KERMIT ANSIOSOSi comincia con l’invio alle case editrici più in vista, poi a scalare si passa a quelle meno conosciute per finire a cercare quelle seminascoste in fondo alla lista di Google. Ogni volta che prendete in mano un libro la prima cosa che guardate è la CE e subito andate a inviarle il vostro manoscritto. Spedire mail diventa un lavoro a tempo pieno. Ogni concorso letterario diventa l’occasione per capire se il romanzo può piacere a qualcuno oltre che a voi e ai vostri amici più cari. L’attesa logora e più i tempi si dilungano più si consolida la consapevolezza che no, nessuno pubblicherà il vostro lavoro. A questo punto subentra la depressione post scripturam. KERMIT DUBBIOSOTutto l’entusiasmo e l’euforia sono evaporati, subentrano i dubbi. Nulla è più certo. Ogni sicurezza sparisce. Si dubita di tutto. L’umore comincia a variare di giorno in giorno. C’è sempre il bisogno di scrivere che è diventato cronico, ma serve l’entusiasmo per riuscire a farlo. C’è bisogno di un riconoscimento. Qualcosa che alimenti l’autostima. Quindi si prova con un corso di scrittura creativa che è un buon metodo per confrontarsi con altri scrittori e per avere un giudizio, più o meno obiettivo, sulle proprie capacità. Si scrivono infiniti post sui social, ai quali risponderanno sempre i soliti amici amorevoli e condiscendenti, ma serviranno a sostenere quel po’ di autostima che basta. Si apre un blog. In casi estremi si ricorre al self publishing. Arriverà qualche riconoscimento, qualche complimento “vero”, qualche offerta di pubblicazione. Dopo anni di “gavetta”, se il successo non arriva, arriva la rassegnazione. L’autore esordiente conosce il suo male e impara a conviverci. È cosciente dell’impossibilità di guarire e scrive nonostante tutto, scrive per se stesso, per continuare a tediare amici e parenti. Si stampa da solo i suoi romanzi, e continua a vivere tra momenti di euforia e sconforto.

No, non dovete aver pena dell’eterno esordiente, lui sta meglio di voi. Ha un sogno, ha un progetto e ci crede, ci crederà sempre nonostante le delusioni, i rifiuti e l’indifferenza collettiva. Lui continuerà a camminare a un metro da terra, a sorridere come un idiota e parlare da solo, ma non lo darà più a vedere, con discrezione anche se sarà sempre pronto a parlarvi del suo romanzo e la gioia riempirà i suoi occhi ogni volta che il rash è in corso.

KERMIT IDIOTA

Monica Bauletti

La morte delle icone pop e i falsi miti dei media

lastchristmas

di Coralba Capuani

Un altro mito degli anni Ottanta se ne è andato, e, profeticamente, proprio il giorno di Natale, festività al quale sarà per sempre legato il suo ricordo vista la popolarità di Last Christmas, diventata, sua malgrado, icona, pure lei, degli stucchevoli stereotipi legati a questa festività.
Siccome io negli anni ’80 ci sono cresciuta, avrei voluto scrivere una profondissima e serissima riflessione sull’innaturalità di queste morti, sul fatto che incominci a capire di essere vecchio quando ti guardi attorno e ti rendi conto che le persone che hanno condiviso buona parte della tua vita iniziano ad andar via: amici, conoscenti, e soprattutto icone pop. Sì, perché la morte di un personaggio famoso non è una cosa che ti lascia indifferente quando sai che molti dei tuoi ricordi sono incollati alle sue canzoni; che so, la prima infatuazione, i primi assaggi di libertà ecc. Quindi se muoiono George Michael, Prince o David Bowie, muoiono anche pezzi di vita in un certo senso. Sensazioni, emozioni, gioie e dolori fissati alle note delle loro canzoni. E non è che ti debbano piacere per forza, perché certe icone pop si imponevano a tutti, che lo si volesse o meno. Come fa, ad esempio, la generazione DJ Television, quella che ha passato le estati a guardare il Festivalbar, a non ricordare il motivetto che ti “facevano sorbire” per mesi e che, una volta fissatosi in testa, non ti scollavi più di dosso? Perciò ti di dispiace quando muore una “star”, perché sai che un pezzo di vita, un’epoca, se ne sono andate per sempre. Che non torneranno più.
Ma questo, in fondo, è un processo inevitabile, è la natura che fa il suo corso. A non essere normale è che molte icone della nostra adolescenza siano andate via, mentre quelle dei nostri genitori resistano ancora, gironzolando per i canali tv o sui palchi di mezza Europa quasi il tempo non li avesse sfiorati.
Ecco, sull’innaturalità della morte precoce delle icone della nostra adolescenza, sulla scomparsa di queste anime di carta, così leggere da volar via con un soffio di vento, avrei voluto discorrere in questo articolo. Fino a quando, cioè, non ho cambiato idea ascoltando i commenti “da comare” nei vari servizi giornalistici passati in tivù. Tralasciando il fatto di essere stata messa a parte di tutti i cavolacci intimi della buon’anima più in questi ultimi due giorni che in trent’anni della sua carriera, la cosa che mi ha lasciato basita è l’immagine quasi da “piccola fiammiferaia” che i media hanno dato di George Michael.
George sarebbe morto a causa di un infarto. No, rettifica, forse George sarebbe morto a causa della dipendenza da droghe che gli avrebbe causato l’infarto che lo avrebbe portato alla morte.
E perché il buon George avrebbe fatto uso di droghe? Ovvio, perché era un’anima in pena, sofferente, sola. Da quando la sua stella aveva iniziato a offuscarsi, poi, sarebbe ingrassato, perciò si sarebbe rintanato nella sua casa in campagna solo e isolato da tutti. Morto così: in pena e solitudine.
Però il suo corpo sarebbe stato trovato dal compagno, e i familiari, inoltre, smentiscono fermamente che il loro congiunto facesse uso di droghe. Anche perché George era una brava persona, buono e amato da tutti, un filantropo dedito agli altri, che avrebbe donato somme ingenti a favore di istituti caritatevoli e così via. E non si sarebbe smentito neanche dopo la morte, visto che parte dell’eredità sarà donata ai figli di alcuni suoi amici.
Ora, senza voler mancare di rispetto a una persona che non c’è più, mi sorgono alcuni dubbi:

1) Ma non si era detto che era un uomo solo? E allora da dove esce la lunga sfilza di amici, conoscenti, parenti e affini?
Risposta: boh!

2) Era ingrassato molto negli ultimi tempi, si vergognava, e perciò viveva lontano dai riflettori.
Risposta: ma un dietologo, no?

Spero sia palese che il mio intento non è denigrare George Michael, a cui va tutta l’umana pietas per un uomo che ha effettuato delle scelte sbagliate – la droga – pagandone, ahimè, poi, le conseguenze.
Il mio intento bensì è di tirare le orecchie a certi giornalisti che ricorrono al sensazionalismo esagerando, montando e gonfiando notizie che, invece, andrebbero date così come sono, in maniera semplice e trasparente.
E invece no, ogni volta che muore la star di turno bisogna farla passare per martire, ma perché?
Che bisogno c’è? Credono di rendercela più simpatica, o, forse, pensano di renderci più accettabili certe “leggerezze”, come imbottirsi di mix di farmaci, droghe, alcol e schifezze varie?
O vogliono solo prenderci in giro burlandosi delle “insignificanti” preoccupazioni delle nostre grame esistenze, come mutui da pagare, disoccupazione, non arrivare a fine mese e crisi economiche varie, che, vuoi mettere il paragone, sono davvero poca cosa in confronto alle sofferenze del vip di turno?
Ma la gente non è mica scema cari miei, lo sa benissimo che il vero problema del compianto George Michael era la droga, e non certo il fatto di essere solo, visto che un compagno, una famiglia e degli amici li aveva. Vogliamo poi parlare del problema legato al peso, che poi non è né più né meno di quello che devono affrontare tutti quelli che devono dimagrire. E quindi? Volete forse che il buon Michael non avesse avuto la possibilità di trovarsi un buon dietologo? Anzi!, magari quello sarebbe stato disposto pure a fargli la spesa nel mercatino bio, portargli a casa i cibi già cucinati, e, magari, pure lavargli i piatti.
Anche il discorso riguardo al declino del suo successo mi pare poco credibile visto che, se si fosse messo sotto a scrivere un album, e fosse andato a bussare alle porte giuste, nessuno gliele avrebbe chiuse in faccia quelle porte. E poi, in fondo sai che c’è, con i soldi che aveva se lo sarebbe potuto produrre da solo un disco, mica come noi miseri scrittori esordienti, che ci tocca quasi fare il porta a porta pur di vendere un paio di copie!
Il succo di questo lunghissimo articolo, dunque, è solo questo:  vada per la compassione che si deve a qualunque essere umano, soprattutto dopo la sua dipartita, ma che almeno i suoi errori possano essere d’esempio ai giovani, a far capire loro che ogni scelta ha un prezzo e che, prima o poi, il conto arriva per tutti.

 

Il coraggio di Bob

di Coralba Capuani

Il Nobel per la Letteratura assegnato a Bob Dylan, credo rappresenti un monito per chi si definisce scrittore o poeta: se quelli dell’Accademia hanno dovuto pescare tra i parolieri della musica pop, e ce ne sono di bravi, per carità, significa che non ci sono più autori capaci di trasmettere valori profondi o riflessioni originali. Significa, in breve, che ha perso la Letteratura, il mondo della parola scritta, quella che non ha bisogno della musica per esprimere la potenza che ha in sé, quella che non ha bisogno di contorno e che sta su da sola, in sintesi. E quindi abbiamo perso tutti:
1) gli scrittori: che hanno ricevuto un bello schiaffone in pieno viso
2) le case editrici: che, evidentemente, hanno perso la lucidità di giudizio e che non sono più in grado di “scovare” il talento.
3) la letteratura contemporanea: stata ridotta uno squallido Mc Donald’s dove ogni sapore viene appiattito in gusto che mescola sapori diversi facendone una brodaglia salata che sa di tutto e non sa di niente e che, peggio ancora, annulla le peculiarità della cucina locale tradizionale.
4) Ha perso la società e la cultura: che si ritrova una miriade di scrittori azzoppati ma nessun vero Autore con la “a” maiuscola, dove autore sta per letterato: persona che dedica la propria vita allo studio e alla diffusione della cultura

Insomma, senza voler crocifiggere o sminuire il talento di Dylan, vorrei che questo Nobel servisse a svegliare le coscienze addormentate di tanti “scrittori” che hanno svenduto il loro talento per una manciata di vendite in più, esattamente come le stesse case editrici che, nascondendosi dietro l’alibi del “non vende”, “non è un testo commerciale” hanno venduto l’anima al dio denaro abdicando il ruolo di scopritori di talenti.
Coraggio! Ci vuole coraggio: ecco, secondo me, quale deve essere il monito di questo premio Nobel. Bisogna che tutti ci si rimbocchi le maniche e si trovi il coraggio di osare, di dire/scrivere cose scomode, fastidiose, non commerciali, ma nuove e originali. Dove l’originalità non sta tanto nel messaggio in sé quanto nella visione personale di chi quel messaggio lancia al mondo. Questo, a mio avviso, quello che manca nella Letteratura moderna.

SPRITZ? Sì, grazie! Certi vizi aggregano.

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Questa mattina parlando con un amico, si rifletteva sul dilagare della moda dello spritz. Il mio amico commercia in vini e mi diceva che lo spritz dà un notevole impulso ai suoi affari.

Concedetemi un cenno storico: Si fa risalire l’origine dello spritz all’usanza dei soldati dell’Impero austriaco, di stanza nelle regioni del Regno Lombardo-Veneto, che allungavano i vini veneti con seltz per diminuirne la gradazione alcoolica. Da qui l’origine del nome, dal verbo tedesco austriaco spritzen, che significa “spruzzare”. Tale usanza austriaca rimane nella Trieste asburgica fino al 1918 e in molte località del Nord-est italiano. “Vino spruzzato” a Milano. lo spritz come lo beviamo noi nasce a Padova e Venezia all’inizio del 900 dall’idea di allungare il vino con l’Aperol (presentato alla Fiera di Padova nel 1919). La popolarità del cocktail si diffonde in tutta la regione veneta a partire dagli anni ’70.  Ora lo spritz è diffuso in tutta la nazione anche grazie alla pubblicità dell’Aperol che non ha perso l’occasione di cavalcare la moda con una campagna pubblicitaria mirata.

Ma come mai questa moda non tramonta?, perché il fenomeno dello spritz non si è sgonfiato dopo il primo exploit come spesso accade per certe brillanti novità? Sembra invece che si stia affermando sempre più e stia diventando un rito necessario e irrinunciabile senza esclusioni.

Domenica eravamo a Monselice e durante la nostra sosta al bar, -con mio marito usiamo fare un giro in bici quando il tempo permette e a metà percorso è d’obbligo la sosta ristoratrice,  Io prendo un caffè shakerato senza zucchero e lui una coca-, erano passate le 13 da poco, mi sono distratta a curiosare i tavoli occupati attorno a noi, la mia attenzione si è concentrata su due ragazze che occupavano il tavolo accanto, avevano due calici vuoti e un vassoio di stuzzichini, vuoto anch’esso. Parlavano. Sì, stavano parlando. Sembra incredibile ma non avevano sul tavolo null’altro che la consumazione e le sigarette, nessun cellulare, nessun tablet. Tutta la tecnologia che di certo avevano con loro era dimenticata in fondo alla borsa e si stavano scambiando confidenze. Non ho resistito e ho origliato con tutta l’indiscrezione che sempre più mi concedo quando le persone m’incuriosiscono. Parlavano di uomini. Parlavano dei loro ragazzi. Una delle due esprimeva all’altra la gioia provata quando il suo boy friend ha voluto assistere alla discussione della tesi affrontando così la sua famiglia e facendo quello che poteva diventare il primo passo per ufficializzare una relazione tenuta nascosta tra le righe di WhatsApp.

Mi torna in mente un’altra immagine, anch’essa rubata al bar. Eravamo a Padova in piazza della Frutta, sosta per un Aperol-spritz questa volta, era tardo pomeriggio. Due tavoli dietro mio marito, si consumava una tragedia. Due signore si confrontavano. La cosa mi ha molto rattristata, ma questo è il pegno da pagare quando ci si permette di farsi gli affari altrui. Le due parlavano di tradimenti. Una delle due piangeva, l’altra non ci provava neanche a consolarla, non avendo sentito tutta la conversazione non saprei descrivere il caso con precisione, ma credo che la più giovane delle due fosse l’amante del marito della più vecchia. Brutta cosa. Ci vuole molto coraggio per affrontarsi tra rivali in amore, ma anche in questo caso non si può con Snapchat.

Quante immagini come queste ho rubato tra i tavoli del bar! Ho fatto queste piccanti divagazioni per cercare di capire il fenomeno happy hour, il bisogno che ha il genere umano di comunicare e di relazionarsi nelle sue molteplici forme.

Vito Mancuso ci esorta dicendo: “non fatevi rubare la solitudine” bisogna mantenere il contatto con noi stessi. Conosco persone che tremano al pensiero di restare sole e di doversi guardare dentro, il terrore di non trovarci ciò che vorrebbero. Dunque? Rimane tuttavia una cura, c’è sempre l’amico al bar. I bar si popolano durante le pause. È il momento di stacco dal cordone che ci tiene tutti uniti globalmente per ritrovare il piacere del contatto a tu per tu. Il cellulare, internet, i social possono aspettare. Il tempo di un caffè, di un bicchiere di vino e qualche salatino non supera la mezz’ora ed è già tanto, ma è quel che basta per una confidenza, per una risata guardandosi negli occhi o di un pianto liberatorio. I ragazzi si baciano e si abbracciano sempre quando si trovano. Stanno ore sulle reti e quando si incontrano si toccano e si stringono. Dopo tanta virtualità diventa indispensabile un po’ di fisicità. È il momento di evasione da quella che è diventata la routine. Ti alzi: controlli i messaggi. Arrivi in ufficio: apri Facebook, rispondi alle mail, comunichi col mondo, esprimi pensieri, ti informi, commenti e aspetti di passare al bar dove trovi l’amico a cui stringere la mano e intanto:

“Un Aperol spritz, grazie”

M.B.

Il graffio di Cecile

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di Coralba Capuani

A me il rosa non piace. Non amo le commedie romantiche e non sopporto l’idea che un film, un romanzo, un testo in generale abbia al centro una storia d’amore.

Non la reggo, non so perché, ed è così da sempre. Non che non apprezzi una storia d’amore ben inserita nel contesto di un romanzo, ma per “digerirla” ho bisogno che in mezzo ci siano almeno un paio di morti violente, una guerra, una pestilenza o disgrazie inenarrabili. Quindi, se non fosse stato per l’amicizia che ho nei confronti di Annalisa-Cecile, probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di compare un libro che sulla fascetta pubblicitaria della Newton Compton recava scritto la dicitura “romantico”.

Mi sono fidata. Anche perché conosco le doti da affabulatrice di Cecile, nonché l’ironia pungente già da qualche anno, da quando, per l’esattezza,  ho avuto l’occasione di leggere un estratto di un suo romanzo in gara a un pessimo concorso al quale ho partecipato. Ma così farlocco, così palesemente combinato che, anche solo nominarlo, credetemi, non vale davvero la pena (oddio che calembour involontario!). 😀

Ma soprattutto mi sono fidata di Cecile perché adoro i deliziosi siparietti familiari che pubblica sulla sua pagina personale di Facebook: un vero spasso! Soprattutto le perle della sua adorabile nonnina, della quale io sono fan e sostenitrice accanita: a proposito, a quando un libro con la supernonna protagonista?

Quindi, dicevo, mi sono fidata e appena è uscito il romanzo Non mi piaci ma ti amo l’ho acquistato. Poi, come sempre, l’ho lasciato abbandonato in libreria insieme a tanti romanzi che mi dico sempre dovrei leggere, ma la cui lettura viene rimandata all’infinito.

Ecco, la settimana scorsa ho deciso che fosse arrivato il momento di iniziare a leggere un paio di quei testi “abbandonati” cominciando proprio dal romanzo di Cecile.

La storia è semplice: Sandy e Thomas si conoscono da sempre. E da sempre non si sopportano. Costretti a condividere le vacanze a causa dell’amicizia che lega le rispettive famiglie, crescendo, si perdono di vista per poi rincontrarsi a causa di un evento inaspettato: vale a dire la morte del nonno di Thomas che nel testamento “obbliga” il nipote a mettere la testa a posto e accasarsi. E chi sceglie quel  buontempone del nonno? Esatto, proprio l’odiata Sandy. Da questo momento prende il via una serie di intrighi e macchinazioni da parte dell’uno e dell’altra fino al sospirato lieto (?) fine? Chissà, lascio a voi scoprirlo.

Questa in breve la trama. Per quanto riguarda la recensione vera e propria inizio con un mea culpa, sì, devo ammetterlo, da un romanzo rosa mi sarei aspettata una sequenza interminabile di scene d’amore, di parole smielate, sguardi languidi, baci, bacini, bacetti, coccole e coccoline e ciccì e coccoccò. E, invece, con mia grande sorpresa, e maximo gaudio, i due protagonisti passano quasi tutto il tempo a litigare. E di brutto! Meravigliosi sono i siparietti e i battibecchi tra Sandy e Thomas, spassose le battute e genialoidi le metafore – nelle quali ho riconosciuto lo stile inconfondibile di Annalisa-Cecile.  Ho adorato, poi, la leggera punta di cattiveria di certe battute, come quella indirizzata alla raccomandata di turno che soffia il lavoro alla protagonista. Ecco come l’autrice descrive i meriti della ragazza:

 

“Lo scopo non era di darle il tempo di sistemarsi. Già, non si trattava di un contrattino di sei anni, ma di un lavoro a tempo indeterminato come professoressa, più il mio posto di ricercatrice per arrotondare. Il paparino non voleva trovarle un marito per confinare i suoi errori genetici al nipotame, bensì fare in modo che la sua adorata e impedita figliola si occupasse della preparazione di migliaia di studenti, per definizione creta plasmabile e pagante, così da uniformare la nostra élite culturale ai livelli di ottusità di quelli che, come lei, hanno bisogno di Wikipedia per farsi strada nella vita”.

Non posso citare i tanti passaggi in cui l’autrice mostra il suo graffio, ma lascio al lettore il piacere di scovarli in una sorta di caccia al tesoro dove, i piccoli oggettini preziosi, non se ne stanno affatto nascosti ma anzi, non fanno altro che balzare di continuo davanti agli occhi del lettore sorprendendolo ogni volta; potrei mai dimenticare il paragone con il clamidoforo troncato? Sì, lo so, anch’io non sapevo cosa accidenti fosse, perciò, dico, non è forse originalità questa? A quale scrittrice sana di mente, infatti, verrebbe mai in testa di fare un paragone usando l’immagine di un clamidoforo?!

Ma a parte i bizzarri accostamenti di immagini, i sorprendenti paragoni, le iperboli decisamente  pazzoidi di cui il testo è disseminato,  tra i meriti dell’autrice vi è anche una certa classe nel narrare (so che alla parola “classe” Cecile si rotolerà sul pavimento), ma è vero, non mi aspettavo tanta eleganza nel raccontare una storia d’amore e, pure, diciamolo, di attrazione e di sesso. Né mi sarei aspettata una totale assenza di volgarità: manco una parolaccia ci ha messo! Niente. Anzi, mi è piaciuto il modo con cui l’autrice racconta la storia e le scene d’amore e di sesso (perché qualcuna ce n’è!) E lo fa con classe (e smettila di sghignazzare!), senza scendere in volgarità dando sfogo a certe perverse fantasie sadomaso tanto in voga oggigiorno, ma anzi, le scene sono tutte abbastanza caste. Sensuali quel tanto che basta a ottenere sul lettore l’effetto desiderato: il suo coinvolgimento emotivo. E questo per me è un grande merito, perché dimostra che l’autrice non ha bisogno di forzare la mano per ottenere l’attenzione del lettore. Non deve cedere a certi facili meccanismi commerciali per rendere godibile il testo.

Per questo alla fine mi sono ritrovata a fare il tifo per Sandy e Thomas, a soffrire per loro e con loro. Insomma: in questa storia d’amore ci sono caduta con tutte le scarpe. E viste le premesse citate sopra direi che è tutto merito delle abilità narrative dell’autrice. Non c’è altro: Cecile Bertod è una brava scrittrice. Ha talento ed è originale. Ha uno stile personalissimo, un graffio tutto suo che riconosci in ogni cosa che scrive, persino in un post buttato a caso sulla bacheca di un social network.

Quindi che dire? Un libro e un’autrice che vi consiglio di cuore perché, nonostante alcuni dubbi che le passano a tratti per la sua irrequieta mente, Annalisa-Cecile è proprio tagliata per questo mestiere.

E quindi vai Ceciglia, e che le stelle siano con te! Ops, mi sa che ci deve essere stata un’interferenza da parte della nostra astrologa di fiducia… 😉

 

 

http://www.newtoncompton.com/autore/cecile-bertod

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Medea a Nereto: chi è il pazzo?

locandina

di Coralba Capuani

Si dice che con la cultura non si mangia. Si dice che la cultura non è per tutti, perciò certe forme d’arte non funzionano in televisione. Il pubblico, si sa, non capisce e perciò bisogna adattarsi ai suoi gusti, non gli si può proporre il teatro impegnato, figurarsi quello greco! La musica classica? Va bene giusto a Capodanno o per qualche occasione rara e speciale (poca, pochissima per carità, anzi, meno ce n’è meglio è).

Queste sono più o meno le scuse che da anni ci vengono rifilate per giustificare  un imbarbarimento ormai imperante, in televisione, come in altre sedi.

La cultura non riempie le saccocce quindi vai con spettacoli di labilissimo spessore culturale, spesso infarciti di volgarità, luoghi comuni e scopiazzature varie. Ma il tutto tritato e sminuzzato per renderlo digeribile allo spettatore medio, quello che fa coppia fissa con il divano e non capisce un tubo (catodico).

Ma esiste davvero questo spettatore medio o non è, piuttosto, la scusa di certi dirigenti mediocri che, per scusare la propria incapacità, si aggrappano a questi luoghi comuni pur di non sforzare la loro materia grigia, ormai arrugginita da anni di lauti stipendi e benefit sicuri?

Il pubblico non capisce, al pubblico va dato ciò che vuole, il pubblico è sovrano.

Ma siamo davvero sicuri che il pubblico voglia ciò che gli viene propinato, che davvero non sia in grado di capire qualcosa che, semplicemente, non conosce?

Non credo, anzi, non penso proprio. E la dimostrazione l’ho avuta ieri sera (per la verità un’ulteriore conferma) assistendo alla magistrale rappresentazione della Medea di Seneca a Nereto, minuscolo paesino di poco più di cinquemila anime. Perché sì, ci sono stati dei pazzi incoscienti che hanno avuto il coraggio di proporre un testo classico, non proprio alla portata di tutti, in un paesino del teramano che non ha nemmeno un teatro! Neanche uno piccolo piccolo – la rappresentazione si è tenuta in una saletta convegni superaffollata, praticamente un forno! Ma nessuno che si sia azzardato ad andare via, a sventolarsi, a fare il benché minimo rumore. Zitti: silenzio tombale. La stessa assenza di parole che si verifica di fronte a un evento prodigioso. O al talento.

Perché il talento azzittisce, paralizza, rapisce, ti porta via dalla tua vita giusto il tempo di un’esibizione, pochi minuti vissuti tra cielo e terra, tanto che poi tornare giù è difficile. Ed è proprio questo quello che ho provato assistendo alla rappresentazione della Medea del Maestro Paolo Magelli, interpretata dalla strabiliante Valentina Banci.

magelli

È bastato poco, un paio di pannelli neri come la pece, un rialzo, qualche candela, il buio e lei: Valentina-Medea. È stata lei sola a riempire una scena scarna arredandola con la forza della parola, con la duttilità della sua voce, la fisicità dei suoi gesti, tanto da far “recitare” anche le ombre delle sue braccia proiettate sul muro.

E il pubblico ha capito. Quel pubblico di presunti spettatori medi che si bevono tutto quello che gli si dà, hanno capito. Perciò sono rimasti in silenzio tutto il tempo. Rapiti dalla potenza del talento e della bellezza, portati via in un’altra dimensione giusto una manciata di minuti – il tempo di una rappresentazione.

Ed è forse in questa dimensione che devono vivere i “pazzi” che hanno avuto il coraggio di portare un testo così impegnato in un paesino di provincia, dove si suppone non si possa apprezzare l’Arte con la “a” maiuscola. E invece no, scommessa vinta. E quindi mi viene da fare una considerazione a questo punto: che i veri pazzi, gli incoscienti, siano proprio quelli che ostinatamente continuano a ripeterci che con la cultura non si mangia, ché la cultura non riempie le saccocce o le panze.

Perché, si sa, il pubblico non capisce, e il pubblico è sovrano…

Un libro che sa di “buono”.

cover lory

di Coralba Capuani

Lorena Marcelli è una brava scrittrice, c’è poco da dire su questo. Avevo letto il suo primo romanzo e già mi ero innamorata della sua scrittura ricca e corposa, nonché dell’intensa capacità descrittiva – e sensoriale – capace di rendere in maniera vividissima colori, profumi e sensazioni tattili.

Nella collina dei girasoli Lorena abbandona le verdi alture della sua amata Irlanda per fare ritorno “a casa”, su altre colline che, questa volta, sono quelle della campagna abruzzese dove il giallo intenso dei girasoli e del grano maturo vengono macchiati qua e là da piccole oasi rosse; i papaveri che annunciano l’arrivo dell’estate.

La vita che Lorena ci racconta in questo romanzo è la vita di una famiglia all’antica, allargata si potrebbe dire se non ricordasse troppo altre tipologie familiari che nulla, però, hanno a che fare con la famiglia Diamante che rispecchia le famiglie patriarcali tipiche del meridione composte da numerosi nipoti, nonni e zie nubili.

Al centro delle vicende vi è la storia di questo nucleo familiare composto da: nonni contadini con una figlia zitella a carico, quattro nipoti femmine, figlie del figlio maschio sposato con una donna incapace di fare la madre e la moglie. Questa in sintesi l’ossatura della trama sulla quale l’autrice imbastisce una rete di ricordi (credo personali) legati all’infanzia nella terra natia e che, trasfigurata dal ricordo, diventa una specie di Eldorado, uno struggente Paradiso Terrestre ormai perduto. La masseria dei nonni diventa un’oasi di pace per Ambra, la protagonista, un luogo dove sperimentare l’affetto e l’armonia, al contrario del nucleo familiare originario in cui regnano le liti tra consorti, nonché la freddezza dei rapporti tra la madre e le sue figlie, ma anche tra le stesse sorelle. Le quattro figlie della Terra, Topazio, Perla, Giada e Ambra, non sono abituate alle manifestazioni d’affetto e crescono l’una contro l’altra, incapaci di amarsi o anche solo di comprendersi; Topazio, persa nel suo cinico egoismo che la porta ad abbandonare la scomoda famiglia adescando il primo sciocco che le capita a tiro, Perla, ragazza vanesia, invidiosa e ritratto della madre. Solo Ambra e Giada sembrano provare affetto l’una per l’altra, ma è un affetto algido, incapace di manifestarsi attraverso il contatto fisico. Contatto fisico che Ambra trova solo nella zia Elia, la zitella-madre, l’unica in grado di manifestare affetto e di ricoprire il ruolo materno a cui Lucia, la madre “biologica” di Ambra, non aspira e anzi rifiuta in maniera categorica fino alla fine. Così la casa dei nonni per Ambra diventa il luogo del cuore, il luogo di una vita semplice scandita dai ritmi immutabili della Natura – come lo scorrere delle stagioni o il lavoro nei campi. Una vita a misura d’uomo, autentica, che sa di buono, di pulito. Ed è proprio il sapore di buono, insieme alle descrizioni di questo paesaggio del cuore, di questo tempo senza tempo, la parte che ho amato di più. Forse perché da abruzzese riesco a condividere con l’autrice quel tempo antico spazzato via dalla modernità ma che, nonostante tutto, è riuscito a sopravvivere nei cuori di chi l’ha sperimentato in prima persona; un tempo, quindi, che deve esserci rimasto indelebilmente dentro a entrambe.

Tra i personaggi ho adorato la piccola Ambra, dolce e ribelle, ma anche Elia, la madre che non è neanche stata sposa. Ho amato la compostezza e la solidità dei nonni che incarnano i valori veri che Ambra non riesce a trovare nella famiglia d’origine (soprattutto nella figura materna), valori tradizionali di un Abruzzo dal cuore “forte e gentile”, dove forte sta per fortezza d’animo, dignità e serietà.

Mi è piaciuto “Fava”, l’amico del cuore di Ambra, l’uomo fedele che ama disinteressatamente, così come ho trovato affascinante la figura di Killian, richiamo irresistibile all’amata Irlanda a cui l’autrice non sa rinunciare neppure in questo romanzo. Ma nonostante queste due figure maschili, le uniche insieme a quella paterna e del nonno a essere davvero pregnanti a livello della trama, per il resto gli altri personaggi maschili sono per lo più ombre prive di carattere, figure deboli che, come burattini, si lasciano manovrare dalle loro mogli per buona parte del romanzo. Un romanzo che è un potente ritratto femminile, e non sempre lusinghiero per noi donne. Se infatti da una parte ci sono la saggezza e la dolcezza di Elia, la ribellione e la sensibilità di Ambra, la fermezza e la pacatezza della nonna, dall’altro vi sono anche figure fortemente negative: Topazio, Perla e la loro madre Lucia, tre pezzi di un unico puzzle che compongono una femminilità frivola, fredda, cinica e calcolatrice.

Un romanzo moderno che sa d’antico, un viaggio nei luoghi del cuore per rivalutare il valore della memoria.

 

 

Klea: tra fantasy e menzogne

foto valentino

Letterando è lieta di presentare ai suoi lettori la nuova fatica letteraria del nostro amico Valentino Eugeni. Continuate a seguirci se volete sapere qualcosa in più su quest’eclettico scrittore.

Henke è un giovane studente di fisica. Henke è malato, è narcolettico, si addormenta nei momenti peggiori, e sogna. Annabeth è la sua migliore amica, da sempre, ma non può raccontargli di Klea, della prigione in cui è rinchiusa. Per questo sceglie di mentirgli ogni giorno, anche quando Klea si avvia al supplizio che il vescovo ha preparato per lei.

Sono queste le premesse di “Klea”, primo racconto breve in ebook di Valentino Eugeni, già autore dello Urban fantasy “La voce di Nero” (Montecovello editore, 2015). Disponibile su tutte le maggiori librerie online (questo il link Amazon), si tratta di un paranormal fantasy in cui l’inquietudine monta capitolo per capitolo. Henke non è l’unico a essere ossessionato dalle sue visioni, ma ciò che scoprirà in merito a quelle immagini oniriche affonda in un passato così doloroso che tutti attorno a lui hanno scelto di mentirgli.

“Klea”, pur non essendo l’inizio di una saga, è parte di un nuovo progetto editoriale dello scrittore fermano che promette di stupire: un’antologia di storie brevi che i lettori potranno comporre nel tempo e che garantisce contenuti speciali ai fan più fedeli.

Come si legge sul blog ufficiale, infatti, Eugeni annuncia la pubblicazione di altri 11 racconti, che seguiranno il primo a cadenza semi-regolare. Alla pubblicazione dell’ultimo racconto, chi li avrà collezionati tutti (producendo prova di acquisto), ne riceverà un tredicesimo in esclusiva e un’illustrazione originale che rappresenta la “copertina” della raccolta così ultimata. Un modo per rinverdire la tradizione delle pubblicazioni a fascicoli nell’era del digitale, in cui il classico raccoglitore viene sostituito dal vostro ereader.

Valentino Eugeni nasce nel 1975. Cultore e consumatore compulsivo di storie, narratore ed esploratore del fantastico. I suoi racconti sono stati selezionati in vari premi letterari e pubblicati nelle antologie di Limana Umanìta e Isola Illyon. “Parthan ci lasciò vivere” è nella cinquina finalista del premio Crysalide Mondadori e viene pubblicato in Effemme, l’almanacco di Fantasy Magazine (Primavera 2014). Il suo primo romanzo “La voce di Nero”, si classifica Top100 su Ilmiolibro.it.

Questi i link dove seguire l’autore:

Blog ufficiale (http://valentinoeugeni.it/)

Facebook (http://valentinoeugeni.it/)

Twitter (https://twitter.com/valentinoeugeni)

Goodreads (http://www.goodreads.com/user/show/49118859-valentino-eugeni)

 

 

Quo(rum) vadis?

Riflessione amara sul fallimento del referendum sulle trivelle.

pecore

di Coralba Capuani

Gli italiani non si smentiscono mai, sono sempre il solito popolo di caproni. Questo è stato il primo pensiero appena venuta a conoscenza del risultato del referendum di domenica scorsa. All’italiano medio importa solo del calcio, dell’uscita domenicale e delle proprie bagattelle familiari, il resto è roba degli altri e lui, da bravo italiano medio, se ne frega.

L’italiano medio pensa che andare a votare sia solo una grossa scocciatura che gli intralcia il programmino domenicale pianificato durante tutta la settimana lavorativa: dormita fino alle dieci, lauto pranzo, vistitina allo stadio per assistere alla partita della squadruccia locale, passeggiatina veloce giusto per accontentare la prole, e soprattutto la consorte che sennò romperà ogni santo giorno a venire della settimana successiva. Infine, dopo una cena, passerà la sera spaparanzato sul divano a vedere la trasmissione svuota cervelli, quella che non impegna e non fa riflettere finché si andrà tutti a nanna in attesa di ricominciare il tran tran del lunedì.

L’italiano medio mica lo sa che c’è stata gente che ha combattuto e perso la vita per dargli quel diritto che lui considera solo una seccatura, un affaruccio da niente, ché è già un peso andare a votare per le politiche, comunali, regionali, nazionali, ma quello è un peso che gli hanno insegnato che non si può scrollare di dosso, però il referendum no, cacchio, pure quello no! A che serve il referendum?, si chiede l’italiano medio, solo a spillare soldi agli italiani, si risponde. E poi vuoi mettere tutti quei quesiti di cui lui non capisce un’acca e manco gli interessa informarsi per cercare di capirci qualcosa almeno? Perciò no, per il referendum l’italiano medio a votare non ci va, se ne frega.

Però non crediate che io stia parlando di gente ignorante, persone prive di un titolo di studio o semplicemente vecchietti un po’ rimbambiti dall’età. No, io mi riferisco a soggetti-tipo, uguali e spiccicati a quello che ieri, domandando se fosse andato a votare, mi ha risposto così: «Alla televisione hanno detto che non bisognava andarci, e poi sono cinque anni che non voto». Il tutto accompagnato da una scrollata di spalle e un arricciamento di labbra.

Ecco, questo è l’italiano medio, quello che si limita a curare il proprio orticello, quello che veste abiti firmati, ha l’i-phone, naviga in internet, chatta, tagga, ma non è poi molto diverso dall’uomo di Neanderthal. Un Neanderthal tecnologicamente evoluto, senz’altro, ma culturalmente quello di allora, quello che si interessa dei propri bisogni primari senza considerare la comunità. Che lui è parte di una comunità più ampia che non è solo la sua famiglia, il paesello nel quale vive, né la regione, bensì una comunità che lo fa italiano, europeo, e anche cittadino del mondo. Un individuo che non capisce che anche lui, seppur neandertaliano nell’intelletto o nella coscienza civica o, peggio, in entrambi i casi, ha degli obblighi morali verso la comunità italiana, europea e anche, in fin dei conti, mondiale. Pure se lui è un minuscolo tassello, una pulce, un neutrone piccolo piccolo, ma che, come l’invisibile neutrone, ha un proprio peso specifico, occupa uno spazio nel mondo,  e che, in certi casi, proprio come il neutrone, può diventare una minaccia per sé e per gli altri.

A me fanno paura queste persone che non si fanno domande, prive di curiosità verso la vita e verso il destino degli altri, quelli che pensano solo alla propria individualità senza curasi della collettività. Mi fanno paura perché sono facilmente manovrabili e, con il loro disinteresse, fanno perdere peso alla comunità tutta che, poco a poco, si alleggerisce di elementi perdendo il potere di contare. Perché chi non sceglie, in fondo, fa sempre una scelta, il suo disinteresse, infatti, fa in modo che la voce degli altri sia meno udibile e, quindi, condanna tutta la comunità al silenzio.

E non si tratta, come dicevo sopra, di ignoranza pura e semplice, di mancanza di cultura, ma di un fattore che denominerei come un’incoscienza culturale, o, se preferite, un’ignoranza della coscienza. Non si tratta di avere titoli di studio, di essere plurilaureati e via dicendo, ma di un’esigenza che viene da dentro e che ti spinge a non accontentarti di ciò che ti viene detto e a intraprendere una tua ricerca personale, e vi posso dire che questo non dipende dal titolo di studio ma da una predisposizione individuale. Faccio l’esempio di due miei compaesani, persone molto diverse, ma unite entrambe da una passione verso la conoscenza. La prima è un’estetista, una di quelle figure professionali che nella fiction Rai “Come fai sbagli” (e mai titolo fu più azzeccato!) suscita la reazione sdegnata di una delle protagoniste alla sola idea che sua figlia possa intraprendere questo mestiere, forse perché i dirigenti Rai considerano l’estetista come prototipo dell’ignorante. Beh, che vi devo dire, sarò stata fortunata, ma non solo la mia estetista suona il violino (appreso da adulta e per passione personale, non certo per farne una carriera), ma legge e si interessa di tutto tanto che mi è capitato di discorrere con lei persino di filosofia greca (solo per questioni di spazio tralascio il caso di un’altra estetista, mia carissima amica nonché ottima scrittrice e lettrice famelica, molto più della sottoscritta…)

Ma tornando ai miei compaesani, il secondo è un tipo strambo, uno che ha idee un po’ rivoluzionarie, ma che, nonostante non condivida i suoi punti di vista, non si accontenta della pappa pronta che ci propinano, ma si ingegna a ricercare i testi più bizzarri e non convenzionali pur di farsi un’idea propria. Magari a volte passa da un argomento all’altro senza continuità di logica o senza spiegare all’interlocutore i vari passaggi intermedi (se li dia per scontati o non li conosca non saprei dire), ma è una persona che ha fatto della ricerca la sua vita. E secondo me è proprio questa la vera cultura: una continua ricerca che ti porta a farti domande che non si esauriscono con delle semplici risposte ma che, anzi, una volta trovata la risposta ti suggeriscono la domanda successiva in un moto perpetuo di domanda e ricerca. La cultura è non accontentarsi di ciò che si vede o ci viene detto, ma approfondire e decidere con la propria testa, scegliere, magari sbagliando, ma scegliere. Perché, ricordiamoci sempre, che anche chi si mette in un angolo sperando che gli altri decidano per lui, delegando agli altri anche le proprie responsabilità civiche, in realtà finisce sempre per fare una scelta che oltre ad avere delle conseguenze per lui stesso ne avrà anche per gli altri. E ricordatevi che, a volte, la sua non-scelta può diventare pericolosa, perché toglie o diminuisce il potere decisionale degli altri, indebolendo, in ultima analisi, anche la democrazia. E non è un caso che i più affezionati al voto siano i più vecchi, persone semplici che magari hanno solo la quinta elementare ma che conoscono il valore della libertà e della possibilità di decidere, proprio perché hanno sperimentato sulla propria pelle che la democrazia è un dono prezioso, un dono che ci è stato regalato da chi ci ha preceduto e che, spesso, ha pagato con la vita. Proprio adesso che si avvicina il 25 aprile, dedichiamo qualche minuto delle nostre giornate oberate di impegni a riflettere sul valore di questo dono che ci è stato affidato solo in prestito e che dovremmo restituire alle generazioni che seguiranno. Non facciamo in modo, quindi, che questo dono si perda per strada, ma lottiamo, come la generazione che ci ha preceduto, per conservare il prezioso dono della possibilità di scelta e della democrazia.

Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere

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Leggo il commento di Bianca Stanco  sull’intervista rilasciata a Il Giornale, dal critico letterario Alfonso Berardinelli e trovo un continuo ritorno di giudizi lapidari del tipo:

“…impossibilità dell’esistenza di classici contemporanei”.
della letteratura è rimasto soltanto il nome. È l’ora dei velleitari, specie in poesia”.
“… la critica ha perso il ruolo trainante e militante”.
“… svuotamento intellettuale nel panorama editoriale contemporaneo, un declassamento della poesia e della narrativa …”.
“Narrativa e poesia si sono così dilatate da essere entità senza forma né confini”.
“È un caso disperato. … il 90 % della poesia che si pubblica non è né brutta né bella. È nulla. Nessuno potrebbe leggerla”.
La poesia “è diventata il genere letterario di chi non sa scrivere”…“i poeti mediamente non hanno idea di cosa sia un verso”.

Da brivido!, ma è davvero così?

No, non può essere così.

Con tutto il rispetto che sempre nutro per chi ha militato per anni nell’ambiente letterario e culturale che certamente ha molto da insegnare, soprattutto a me, ciò nonostante mi sento di dissentire. In questo nostro millennio la letteratura sta sicuramente soffrendo di ipossia dovuta al sovraffollamento, ma siamo sicuri che sia davvero un male?, non è invece uno stimolo alla ricerca, alla critica e alla curiosità?
Sento dire:
“Se l’editoria si rifiutasse di pubblicare almeno i due terzi di quello che pubblica, si riuscirebbe a fare un po’ di chiarezza”.
La campana stona un po’.
Si dà troppa importanza alle case editrici, in fondo sono “enti commerciali” che vivono e proliferano sull’attivo di bilancio. Non è sano conferire il potere di indottrinarci a chi ha troppi interessi da soddisfare. L’obiettività non è una virtù che appartiene al business. Un tempo si diceva: “Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”, e oggi si vorrebbe che il contadino ci dicesse ciò che è buono? Ciò che piace lo decide il lettore non il venditore perché se così non fosse allora avrebbe ragione Sgarbi quando ci chiama capre. Siamo un popolo istruito, distratto forse, un po’ pigro, ma il popolo dei lettori è un popolo istruito e i mezzi di informazione non mancano.
Leggo sull’articolo di Bianca Stanco:
Il lettore medio non ha più le facoltà per scegliere e comprendere di cosa parla un libro.”
Rabbrividisco e m’indigno.
Io sono una lettrice media e non permetto a nessuno di dirmi che non ho la FACOLTA’ di scegliere e comprendere di cosa parla un libro. Un urlo mi squarcia dentro e mi sento ferita da questa affermazione.
È vero che l’enormità della produzione di libri (vado cauta e non definisco tutta la produzione in circolazione chiamandola: romanzo e neanche opera) può metterci in mano delle vere ciofeche e ciò può deluderci, può indignarci perché ci sentiamo frodati: pensavamo di poterci concedere un momento di bella lettura invece no; ma ciò succederà qualche volta, non sempre; certe lezioni si imparano e aiutano a raffinare le scelte; se si dovesse ripetere potrebbe essere solo per un difetto di distrazione. Ci stiamo abituando un po’ tutti a leggere gli incipit che spesso sono disponibili anche sulle biblioteche on line; abituiamoci a essere propositivi, costruttivi e critici. Abituiamoci ad ascoltare il consiglio di amici, il passaparola rimane sempre il miglior modo per scegliere con il minimo rischio.
Ancora: “da solo il lettore non capisce che sapore ha un libro”. Un’affermazione di questo tipo denota un orribile disprezzo verso i lettori considerati al pari di humus, frutto della degradazione e rielaborazione degli interessi commerciali delle multinazionali dell’editoria e buono solo come fertilizzante per far fiorire talenti senza talento e casi letterari senza caso.

Per quanto riguarda poi l’affermazione che: “I narratori hanno un solo obiettivo, ossia il Premio Strega”, e ancora “l’assenza di scrittori creativi, coscienti, in grado di rapportarsi con il pubblico e soprattutto consapevoli della cosa da raccontare” mi ariva come alibi e denota inerzia e pigrizia a conferma che chi vuole davvero fare informazione e critica letteraria deve armarsi di pazienza, falce e macete per avventurarsi nella giungla di edizioni che vengono sfornate ogni giorno. Il critico letterario non può più starsene seduto comodo sul divano e aspettare che gli arrivino i libri da leggere e recensire fidandosi del marchio editoriale impresso in copertina, oggi il critico letterario deve cambiare strategie e scavare con pazienza, intuizione e un pizzico di fortuna, come fanno e hanno sempre fatto gli archeologi.
Chi afferma che “La letteratura non ha più a disposizione un pubblico competente, né nell’ambito della narrativa né in quello della poesia. Non vi è più la ricerca di nuovi talenti, di curiosità.”, apparterrà forse a quella parte della critica stanca, che ha tanto operato nel settore d’aver esaurito l’amore per la ricerca della cultura il cui entusiasmo si è spento, soffocato dal peso delle troppe novità tecnologiche un po’ incomprese e un po’ pressanti che ora vorrebbe riposare sugli allori e invece gli allori riconosciuti sono inferiori alle aspettative?

M.B.

L’arcobaleno torna ai bambini

 

le tazzine

Ciao e benvenuta sul blog di Letterando, per prima cosa una curiosità, come ci hai conosciuto e perché hai scelto noi?

Ciao grazie per la possibilità che mi state dando, girando per il web, per farmi conoscere come blogger e illustratrice mi sono incuriosita al vostro sito e vi ho contattato. È stata una pura casualità.

Presentati ai nostri lettori, chi è Mariangela e cosa fai quando smetti gli abiti di scrittrice?

Mi chiamo Mariangela Caccia e sono un’illustratrice e una blogger, scrivo su un sito di cinema e mi occupo della parte kids, faccio recensioni e cerco di dare consigli ai genitori, visto che sono anch’io una mamma di una bambina di 6 anni di nome Nicole.

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Come è avvenuto l’incontro con la scrittura? È stato un processo lineare, una scoperta recente o è stata una passione accantonata e poi recuperata?

È stata una passione accantonata e poi recuperata, mi è sempre piaciuto scrivere per i bambini e raccontare storie, ho messo insieme il mio lavoro di blogger e di illustratrice e ho creato un libro App per bambini con il titolo “La Famiglia Arcobaleno”, anni fa tenevo una rubrica sempre per bambini sul giornale “La Cronaca di Piacenza”.

Come mai questo titolo singolare per un libro dedicato ai bambini? Sai con i tempi che corrono quando si parla di “arcobaleno“ si pensa a un unico argomento. Io stessa sono caduta in errore prima di dare una sbirciata al link d’acquisto del tuo libro 😀 (che trovate qui: https://itunes.apple.com/it/book/la-famiglia-arcobaleno/id1049110105?mt=11&ign-mpt=uo%3D4)

Sì, hai ragione, quando parliamo di famiglia  arcobaleno ci vengono in mente le famiglie con coppie omosessuali. Io per il libro non mi sono basata su questo argomento, ho semplicemente creato una famiglia allegra con voglia di fare e insegnare ai bambini i numeri le lettere i colori e tanto altro in modo efficace ma semplice, perciò ho pensato a colori allegri e solari, tutto qui.

Quanti libri hai scritto e quale genere tratti?

Scrivo libri per bambini, con delle parti interattive per aggiungere alla lettura il divertimento del gioco, della curiosità e della scoperta. Un altro libro scritto che uscirà a breve è sulla paura del buio e come aiutare i bambini a superarla. Mi piace molto il mondo dei bambini, perché mi da la possibilità di viaggiare con la fantasia e far uscire la bambina che c’è in me. Ho sempre scritto per bambini, all’inizio, creando storie su misura per il bambino stesso, dove lui o lei diventavano i protagonisti della storia stessa. Poi con l’evolversi anche della tecnologia ho provato a creare dei libri interattivi unendo l’utile al dilettevole. “La famiglia Arcobaleno” è un libro interattivo arricchito da magiche animazioni. La storia, emozionante, accompagna il bambino in un viaggio alla scoperta dei colori, dei numeri, delle lettere, delle note musicali, stimolando la fantasia e incoraggiando la creatività. Attraverso il gioco i bambini impareranno a conoscere ciò che li circonda. Potranno, con un semplice tocco, fare magie e giocare con mamma e papà, far suonare la sveglia dormigliona ed imparare i numeri, svegliare le tazze ballerine con i biscotti che si tuffano nel latte, mentre il treno fa ciuf, ciuf; guardare il coniglio salterino mentre tenta di mangiare la signora carota, e scoprire come corre il signor bruco giù per la collina, fino a far scappare il signore del buio.

il nero

Tu sei un’esordiente e spesso molti tuoi colleghi ricorrono all’autopubblicazione, tu cosa ne pensi, meglio avere alla spalle una casa editrice o chi fa da sé fa per tre? Com’è stata la tua esperienza in proposito?

Ho avuto tutte e due le esperienze, il primo libro “Nily vince la paura del buio”, scritto con una psicologa dell’infanzia, è stato pubblicato da una casa editrice, ma purtroppo l’esperienza non ha avuto esiti positivi, forse perché la casa editrice stessa non era specializzata per la fascia kids.

Con il libro “La famiglia Arcobaleno” invece abbiamo deciso per l’autopubblicazione, e sembra che il tutto stia procedendo nel migliore dei modi. Anche se non è stato facile perché il mondo web è pieno di libri gratuiti e non per bambini.

Progetti futuri?

Tra i progetti futuri ho due libri nel cassetto, due testi che sto scrivendo con una professionista del mestiere (logopedista) per aiutare i bambini con difficoltà di linguaggio e avvicinare i più piccoli alla lettura con molta semplicità. Un altro libro è invece sempre sulla paura del buio e come cercare di risolverla con delle strategie abbinate alla storia.

Grazie per essere stato dei nostri e a presto!!!

Dove seguire Mariangela http://kids.screenweek.it/

 

 

 

Lo spirito investigativo di Roberto Blandino

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Ciao e benvenuto/a sul blog di Letterando, per prima cosa una curiosità, come ci hai conosciuto e perché hai scelto noi?

Vi ho conosciuti attraverso i social network e in un certo senso il destino ha voluto che le nostre strade si incrociassero…

Presentati ai nostri lettori, chi è Roberto Blandino e cosa fai quando smetti gli abiti di scrittore?

Mi chiamo Roberto Blandino, 43 anni, torinese, vivo e lavoro a Biella. Una figlia di 4 anni. Passione per la scrittura da sempre, ma ho cominciato per gioco qualche anno fa. Insomma, padre, marito, lavoratore e tante altre cose, come tutti. Scrivere è una delle molte passioni che coltivo, con tenacia e umiltà. Forse perché ne ho bisogno, come valvola di sfogo, nonostante il poco tempo a disposizione.

Come è avvenuto l’incontro con la scrittura? È stato un processo lineare, una scoperta recente o è stata una passione accantonata e poi recuperata?

Mi è sempre piaciuto scrivere. Una dote naturale che ho però abbandonato subito dopo gli studi, nonostante sia stato l’unico studente del mio istituto superiore ad avere 10 in componimento. Alcuni anni fa, causa le lunghe notti insonni per la nascita di mia figlia, si è risvegliata la passione e allora, di getto, ho scritto il mio primo libro.

Quanti libri hai scritto e quale genere tratti?

Ho scritto cinque romanzi e due saggi, uno sull’Astrologia e uno sull’esoterismo in genere.

Ci parli dei tuoi romanzi?

I miei romanzi raccontano le avventure e le indagini di un ex membro dei servizi segreti vaticani, Gabriel Delacroix, colpito da gravi crisi esistenziali dopo la tragica scomparsa della moglie. Archeologo e storico dell’arte, Gabriel ha un oscuro passato che viene via via narrato lungo il dipanarsi delle sue avventure.

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Nello specifico Lo Spirito del Male è l’episodio pilota di una serie di romanzi che ruotano intorno alle indagini di Gabriel Delacroix, ricercatore universitario ed ex agente del Servizio di Informazione del Vaticano, il SIV, di cui era uno dei pochissimi membri laici. Dopo la tragica scomparsa della moglie, Gabriel si è ritirato progressivamente a vita privata, dividendosi tra i suoi incarichi presso i Dipartimenti di Orientalistica e di Scienze antropologiche, storiche e archeologiche dell’Università di Torino e il ruolo di genitore. Abbandonato poco più che neonato alle porte del Matteo Ricci Institute di Macao, Gabriel viene adottato dal Padre Gesuita Antoine Delacroix, che gli dà il suo cognome e lo educa come suo successore alla guida del SIV, organizzazione nella quale Gabriel militerà poi per oltre venti anni. L’occasione di rimettersi in gioco si presenta sotto le vesti di suo cognato, il Colonnello dell’Arma Alessandro De Angelis, membro effettivo dell’AISI, il quale ha ricevuto l’incarico di fermare un misterioso assassino, che si è auto appellato come “Il Demiurgo”, che ha rapito due delle massime cariche dei Servizi Segreti italiani. Dopo aver inviato al Generale Andreis, Direttore dell’AISI, le prove dell’avvenuto assassinio di uno dei due funzionari rapiti, il Demiurgo minaccia l’uccisione del secondo entro le 48 ore successive, a meno che non gli vengano fornite le coordinate delle leggendarie Grotte Alchemiche di Torino. Il Colonnello De Angelis, coadiuvato da due colleghi statunitensi, il Maggiore Ted Newmar e il Tenente John Repetti, si rivolge quindi all’unico uomo che crede possa aiutarlo nella ricerca, suo cognato Gabriel, appunto. Gabriel si metterà quindi alla testa del gruppo per intraprendere una strenua ricerca attraverso i punti chiave della Torino esoterica, fino all’inaspettato confronto finale con il misterioso Demiurgo e le creature del buio che egli domina…

Tu sei un esordiente e spesso molti tuoi colleghi ricorrono all’autopubblicazione, tu cosa ne pensi, meglio avere alla spalle una casa editrice o chi fa da sé fa per tre? Com’è stata la tua esperienza in proposito?

Anche io ho autopubblicato i miei romanzi, prima di cedere i diritti de Lo Spirito del Male a Leone Editore per 10 anni, l’ho autopubblicato con il titolo de Il maestro del buio e con un po’ di fortuna sono stato al primo posto di Amazon per dodici settimane consecutive, davanti a mostri sacri come King e Cooper. Dopo aver venduto migliaia di ebook le case editrici hanno cominciato a notarmi. Ho quindi firmato con Leone Editore.  Autopubblicare è una grande avventura, ma è anche un’arma a doppio taglio. In Italia il 57% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. In Francia si legge 4 volte di più, per esempio. Tutti vogliono scrivere però. In pratica, vi sono quasi più aspiranti scrittori che lettori, e questo è singolare visto che il primo requisito per un aspirante scrittore è quello di essere un avido lettore… Ma l’editoria vera rimane quella cartacea, almeno in Italia, e non autopubblicata. Il self a mio modo di vedere le cose dovrebbe essere solo un punto di partenza, anche se pubblicare con una casa editrice, ancorché ben distribuita, richiede moltissimi sforzi ugualmente.

Progetti futuri?

Proseguire le avventure di Gabriel Delacroix ed espandere il suo mondo. Ho quasi ultimato la trama del quinto romanzo che lo vede protagonista anche se prima dovranno essere edite le sue precedenti avventure. In pratica posso lavorare con tranquillità.

Grazie per essere stato dei nostri e a presto!!!

Grazie a voi per l’attenzione.

Per seguire Roberto clicca qui

http://www.leoneeditore.it/catalogo/index.php?main_page=product_book_info&cPath=5&products_id=278

http://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.recensionelibro.it%2Flo-spirito-del-male-roberto-blandino&h=RAQF4CZRL&s=1

 

 

 

 

#29/02/m4festa

bisesto

Lunedì 29 febbraio si consuma il giorno regalato da questo anno bisestile.
Un giorno in più per questo anno che all’apparenza non sembra molto diverso dai precedenti (Petaloso a parte).
Il detto è “anno bisesto anno funesto”.
Potrà davvero questo 2016 essere più funesto di un 2015 che ha visto migliaia di profughi approdare sulle spiagge italiane i loro corpi senza vita? (così per dirne una), questo esodo e le cause che lo originano non è già una tragedia immane?, e sottolineo immane.
Detto questo non serve continuare l’elenco degli eventi funesti avvenuti negli anni non bisesti e comunque sappiamo che il peggio non finirà mai, l’uomo è un animale che non sa vivere in pace, lo dimostra la sua storia. Ma torniamo a questi anni multipli di 4. Dalle mie parti si dice “anno bisesto anno senza sesto” e questa seconda definizione è più gradevole perché crea l’immagine di un anno pazzerello, un anno imprevedibile che esce dagli schemi e non ha un “sesto”; che poi, sempre dalle mie parti, si dice “sei matto come un sesto” che vorrà forse dire un’altra cosa, ma l’assonanza dei due termini mi porta ad associare l’anno bisestile alla “pazzerellia” (sempre per restare in tema di # e provocare la Crusca). E così accontento tutti i nati di anno bisestile che per questo si sentiranno un po’ privilegiati perché vestono la pazzia di un anno imprevedibile, originale e vivace.
Comunque a tutti viene regalato un giorno in più:
– in più per pagare i debiti, le scadenze di fine mese si spostano di un giorno;
– in più per vivere; invecchiamo di un giorno e la facciamo franca, mica ci appiccicano i decimali all’età, ad essere fiscale dovrei dire che compirò 52,13 anni;
– i più romantici penseranno di avere un giorno in più per amare, tutti gli altri un giorno in più per …, va be’ anche litigare è un po’ amare.
In fondo però c’è una piccola fregatura in tutto questo. Perché si deve lavorare il 29 febbraio?
È o non è un’eccezione? È sul calendario valido 4 anni su 5 la regola. Tutto è calcolato sui 365 giorni.
È o non è il 29 febbraio un giorno aggiunto per sistemare uno slittamento astronomico? (tecnicamente si dice così), un correttivo stagionale? Si aggiusta un calcolo imperfetto e per questo lo paghiamo con fatiche e lavoro?
Allora la mia proposta è: #29/02/m4festa e buon anno bisestile a tutti.

M.B.

Basta con le dichiarazioni “petalose”: un po’ di buonsenso please!

pirand

Svegliatemi!!! No, dico, adesso non è ora che qualcuno mi svegli? Eh sì, perché a me pare di essere piombata in una novella di Pirandello che, per chissà quale strana combinazione, sia stata mescolata ai romanzi di Kafka che, a loro volta, si sono fusi con il teatro dell’assurdo. Più vado avanti, infatti, più mi convinco che deve essere questa la spiegazione. Altrimenti come si spiegherebbe che da qualche tempo la gente ha iniziato a straparlare? Gente che stimavo e reputavo intelligente e che poff, tutto d’un tratto si è messa a sparare cavolate come niente fosse. L’ultima giusto oggi. La Carrà che sul sito de La Repubblica chiede ai lettori se per caso è venuta su male, lei che è cresciuta con due donne. Peccato che la Raffa nazionale non dica che si tratti della madre e della nonna, e che, quindi, le unioni civili non c’entrano un cacchio (si può scrivere “cacchio”?)

Mi ero ripromessa di stare zitta, giuro, anche perché su questo argomento ho espresso ampiamente la mia opinione, ma quando leggi dichiarazioni simili come fai a stare zitta? Tacere sarebbe da idioti. Perciò parlo, e chi non gradisce non legga questo lunghissimo pistolotto (come dice la socia Monica).

Nessuno si offenda se dichiaro di non apprezzare le unioni civili né, tantomeno, le leggi che tutelano queste unioni. Non ho nulla contro i gay, le lesbiche, i divorziati, i risposati e chi più ne ha più ne metta. Non condivido le loro idee ma non ho nulla contro di loro. Per quanto mi riguarda possono fare quello che vogliono: fidanzarsi, darsi alle orge, allo scambio di coppie, al buddismo, allo yoga, alla meditazione o quello che cavolo vogliono. Ciò che mi aspetterei però è che non abbiano la pretesa di “scimmiottare” il matrimonio. Uso un termine forte, lo so, ma in questi tempi di ipocrisia credo che esprimere le proprie opinioni in maniera netta  e diretta sia il modo migliore. Il matrimonio, per me che sono alla giurassica più che all’antica, è uno e indissolubile. Pensate che considero persino il matrimonio in Comune come “inferiore” rispetto a quello in chiesa. Ma questa è una mia personalissima opinione, per carità, meglio un matrimonio vero in Comune che un matrimonio in Chiesa fatto da una coppia che poi, nel corso della vita, non ci rimetterà più piede.

Tornando a noi, l’unione affettiva di due individui è giusta e sacrosanta e nessuno, che la condivida o meno, può denigrarla. Per dirla terra terra l’affetto è una cosa personalissima e nessuno può metterci becco. Altra cosa è il riconoscimento da parte dello Stato. È questo che trovo stupido. Perché con tanti problemi che ha il nostro paese, il Governo deve perdere tanto tempo per fare una legge ad hoc per una minoranza della popolazione? A che pro?

Se queste coppie di fatto possono vivere liberamente su che caspita di argomenti si dovrebbe legiferare? Per il riconoscimento di un amore doc e no made in China? Perché vogliono sposarsi? Perché ci sono dei figli di mezzo? Per la pensione? Per soldi?

Allora, io che sono piuttosto pragmatica la vedo così:

1 – l’amore non ha bisogno del riconoscimento dello Stato. Altra cosa se è la Chiesa nel caso di una coppia di credenti (ovviamente etero!)

2 – il matrimonio. Tasto dolente. Sarò cattiva, stronza o quello che volete voi, ma queste coppie, soprattutto se formate da persone dello stesso sesso non possono equiparare la loro unione al matrimonio tra un uomo e una donna. Semplicemente perché la loro unione è “altra cosa” rispetto all’unione di un uomo e di una donna, punto. Poi dentro “altra cosa” potete metterci quello che volete, aggettivi positivi o negativi, petalosi e non! (che orribile aggettivo ho usato oibò L)

3 – per i figli? Allora, rileggete le avvertenze del punto 2 relative alla stronzaggine dell’articolista ma se si tratta di adottare figli altrui o , peggio, di farseli fare su ordinazione, allora io dico no, non e no! i bambini non sono oggetti e non si fanno su commissione. Se i figli invece sono del partner beh, allora lasciate che vi dica due paroline cari genitori. Ma se voi sapevate della vostra sessualità, perché caspita ve ne andare in giro a fare figli! E non venite a raccontarmi la favola che vi siete accorti solo dopo di essere gay e lesbiche, che è come sentire il famoso tizio che dichiarava di avere una casa a sua insaputa. Perciò, per prima cosa vi tirerei le orecchie per essere stati così superficiali ed egoisti ad aver messo al mondo un bambino sapendo dei vostri gusti sessuali. Ma siccome mò il bambino ce l’avrete, non vi si può mica togliere. Non sono così stronza, anche se, a essere cattiva per davvero meritereste che vi venga tolto e affidato a un’altra famiglia fino al compimento del diciottesimo anno d’età. Poi solo da allora dovrebbe decidere se darvi una possibilità come genitore. Ma siccome cattiva sì, ma crudele no, penso che la cosa più giusta da fare sarebbe affidare il pargolo ai nonni paterni o materni che siano – sarà il giudice a stabilire in base all’età al reddito ecc. chi sia più consono – e voi, genitori immaturi, potreste sempre continuare a vederlo e a fare il padre o la madre. Poi, semmai, saranno cacchi vostri se il pargolo, una volta cresciuto, vi liquiderà con una bella pedata nel fondoschiena.

E questa era la prima parte. Sistemata la parte seria della questione passo alla Fase 2: la pubblicità.

Ho trovato davvero obbrobrioso il continuo martellamento mediatico a favore delle unioni civili. Capisco e comprendo i diretti interessanti che, nella fattispecie, sono stati molto più corretti e civili di certi etero vip che, con i loro sbandieramenti technicolor-sanremesi, hanno dimostrato tutta la pochezza della loro materia grigia, nella quale una sola nota risuona: viva l’ammmoreee!!! E vabbè, passi per chi è direttamente interessato e tira l’acqua al suo mulino, passi per chi è davvero convinto e, da filantropo, si batte per la causa. Basta che non sia solo quella però! Tipo la Mannoia per esempio. Nella sua bacheca trovi di tutto: post che ti spiegano in maniera razionale, e non con frasette adolescenziali del “vivalammmore”, perché è a favore delle unioni civili, ma anche post di denuncia per l’indifferenza che l’Unione Europea riserva agli immigrati, oppure denunce sul fenomeno del femminicidio ecc. ecc. Insomma, Fiorella è una che si è sempre occupata di problematiche sociali, si può non essere  d’accordo con lei, ma non si può certo accusarla di seguire l’opinione corrente o le mode del momento.

Altra cosa, invece, lasciatemelo dire, davvero vomitevole, è vedere personaggi tipo la Pausino o Ramazzotti che, lautamente pagati dal servizio pubblico, si mettono a esibire le loro opinioni quando in altri casi di cronaca (gente che si suicida per la mancanza di lavoro, le morti nella terra dei fuochi, le donne uccise o deturpate dall’acido, le ingiustizie verso i disabili che non possono neanche prendere un pullman perché non sono provvisti dell’apposito predellino, i trecento morti nel mare di fronte a Lampedusa e tante altre cose orribili) non hanno detto neanche una parola. Neanche su Twitter. Allora tu, cantante di amorazzi adolescenziali, pagata e strapagata con il canone di noi cittadini, come cavolo ti permetti di piazzarti sul palco dell’Ariston a fare la sbandieratrice della Quintana di Ascoli? Chi te l’ha chiesto? Ma che vuoi? Chi ti conosce? Pensa a cantare ’ste quattro canzoncine gne gne gne e non rompere gli zibedei allo spettatore. E, soprattutto, se proprio vuoi fare la sbandieratrice, fallo nel tuo concerto. E  infine vergognati! Per l’indifferenza e l’insensibilità che mostri nei confronti di altri problemi che, questi sì, ledono la dignità di alcuni cittadini che lo Stato non si degna neppure di pensare..

 

 

La Fiera delle Parole contro Bitonci – atto unico

 

Antefatto
PADOVA. Nel documento di programmazione attività culturali allegato al bilancio di previsione 2016 manca la Fiera delle Parole, non è prevista, cancellata!, dimenticata? No, sostituita.

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Sembra che nell’organizzare l’edizione del 2015 il/la Patron del Festival della parola scritta sig.ra Bruna Coscia non abbia accolto i suggerimenti del sindaco. Massimo Bitonci si è risentito decidendo di sopprimere l’evento per poterlo organizzare liberamente secondo le linee previste dalla sua giunta: “…, non vedo per quale motivo il sottoscritto, che non più tardi di un anno e mezzo fa è stato votato dalla maggioranza dei padovani insieme con un preciso programma elettorale pure in campo culturale, dovrebbe ora disattendere quel programma e replicare gli eventi culturali delle amministrazioni precedenti.” (Corriere del Veneto 20/01/2016)

La Fiera delle Parole che è arrivata alla sua 9° edizione, le prime 4 svoltesi a Rovigo e traslocata a Padova dal 2011, ha offerto negli anni incontri e spettacoli vantando la presenza di intellettuali, autori e artisti che hanno sempre dimostrato di apprezzare la nostra bella città e la sua iniziativa.
Il centro storico della città per una settimana si è animato di eventi organizzati nei palazzi simbolo della cultura e spettacolo patavino come il teatro Verdi; il meraviglioso palazzo della Ragione, il Palazzo Moroni, sede del municipio; le scuole e la storica Università, la seconda in Italia dopo Bologna che nella lista dei nomi illustri che hanno vi insegnato può vantare la presenza di Galileo. Il caffè Pedrocchi, detto caffè senza porte, antico ritrovo degli intellettuali; per non parlare delle librerie grandi e piccole che in occasione di avvenimenti come questo sono per ovvi motivi in prima linea. L’offerta fornita ha ottenuto risultati crescenti negli anni e l’ultima edizione, quella di ottobre 2015, ha attirato in città 70 mila persone in sei giorni.
Si conclude così la storia della Fiera delle Parole versione padovana. La 10° edizione dovrà trovare una nuova location. Padova chiude le porte alla kermesse di Bruna Coscia.
sgarbi e bitonciDichiara il sindaco Massimo Bitonci: “Ho proposto a Vittorio Sgarbi di fare il direttore artistico di un grande festival letterario che si terrà a Padova in ottobre. Un festival aperto davvero a tutti, senza alcuna ideologia di carattere politico. Un festival ad amplissimo raggio, con la presenza di autori italiani e internazionali. Un festival che avrà una formula e magari anche un nome diversi da quelli che ha avuto in passato”.
Diceva un noto cantautore: “Non cambiar la regola, se regola già c’è” e se poi la regola non era così male?, ma già ben collaudata?, un peccato cancellarla. Certo le imperfezioni ci sono, ma i collaudi a questo servono. Non sarebbe stato meglio partire da una piattaforma già strutturata per ingigantire l’evento?
La ragione della scelta drastica di eliminare la Fiera delle Parole per avviare un evento culturale tutto nuovo mi sembra la conseguenza di una totale mancanza di umiltà e dello smarrimento dell’obiettivo che rende sacro un evento culturale: la cultura.
Non riusciamo proprio a imparare niente dalla storia. Siamo davvero i figli sciocchi dell’Antica Grecia? Le guerre si fermavano durante i giochi Olimpici e noi non riusciamo a mettere da parte l’arrivismo e i giochi di potere per celebrare degnamente le doti letterarie di intellettuali e artistiche?
Tutti pronti a schierarsi ora da una parte e ora dall’altra. Sembra la fiera del galletto, il galletto padovano appunto, che impettito fronteggia l’avversario pronto a morire pur di difendere la posizione di supremazia. Le guerre iniziano sempre così e poi tutti perdono sempre qualcosa. Non imparerà mai l’essere umano che le sinergie aiutano a migliorare e a crescere?
Ed è così che la kermesse letteraria che poteva diventare un evento di risonanza internazionale e dare risalto alla nostra bella città, la città dei “Gran Dottori” ora cambierà volto.
Intanto la Fiera delle Parole inventata e organizzata da Bruna Coscia, è contesa dalle città e paesi limitrofi, la vuole Verona, la chiede Este, la reclama Rovigo. Questo evento sta prendendo un’identità itinerante.
apollo1Non ci resta che invocare la protezione di Apollo e sperare che non imbracci il suo arciere.
Alla fine, tra i due litiganti potrebbe risultare vantaggioso avere due eventi a cui assistere e, se vogliamo vedere il lato positivo, una maggiore offerta culturale: un festival di sinistra e uno di destra e, noi in mezzo; noi che poco ci curiamo delle beghe di palazzo; che leggiamo il libro e non incensiamo l’autore; che non chiediamo la razza, la religione, l’ideologia dell’autore quando acquistiamo un libro, ma leggiamo la sinossi e l’incipit per capire se ci può piacere la storia; noi che siamo critici e sappiamo leggere con attenzione cogliendo il buono e lasciando il cattivo, sposando il giusto e condannando gli errori.

Speriamo però che non si mettano in competizione per farsi i dispetti e che scelgano due periodi diversi per non trovarci nell’imbarazzo di dover scegliere a quale evento partecipare, perché a casa si fa zapping comodamente seduti sul divano quando le emittenti si fanno concorrenza con programmi interessanti, in casi particolari si registra una trasmissione mente se ne segue un’altra, ma per essere presenti agli interventi di due autori contemporaneamente ci vuole quel dono che ci è stato negato e che nemmeno la scienza è ancora stata in grado di produrre, chissà se Apollo ci verrà in aiuto lo chiederemo alla la sacerdotessa detta Pizia.

10363718_939424692772931_689260281877936841_n  M. B.

#UNAVALIGIADILIBRI

 

BENVENUTI

NELLA BIBLIOTECA DI LETTERANDO

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1815) SE QUESTO E’ UN UOMO di Primo Levi

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Libro nuovo (2015) Non luogo a procedere di Claudio Magris

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1815) EMMA di JaneAusten

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Libro nuovo (2015) LA PUNTURA DELLA MEDUSA di Monica Bauletti

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1975) Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallacci

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Libro nuovo (2013) Reperto occasionale di Gianni Papa

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1938) I quarantanove racconti di Ernest Hemingway
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Libro nuovo (2015) Favole del morire di Giulio Mozzi

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1869) GUERRA E PACE  di Lev Tolstoj

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e Libro nuovo (2003) NAPOLEONEONE La voce del destino – Il sole di Austerlitz DI MAX GALLO

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Libro Vecchio (1961)    DAI, MARZOLINA!  di BERTHE BERNAGE

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e Libro nuovo  (2012) Storia dell’Immondizia di Mirco Maselli

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Libro Vecchio (1960)   LA NOIA  di Alberto Moravia

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e Libro nuovo  (2007) RABBIA di Chuck Palahniuk

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Libro Vecchio (1961)   UN CUORE ARIDO di Carlo Cassola

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e Libro nuovo  (2015) SIRENA di Barbara Garlaschelli

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Libro Vecchio (in prima pubblicazione nel 1956) Angelica di Anne e Serge Golon

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Libro nuovo – 2015 L’amica più preziosa di Monica Bauletti

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Libro Vecchio (in prima pubblicazione nel 1958) Il Gatto0pardo di Tomasi di Lampedusa

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Libro nuovo – 2015 Il cuore aspro del

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Libro Vecchio (in prima pubblicazione nel 1922) Siddharta di Hermann Hesse

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Libro nuovo – 2013 L’OCEANO NEL POZZO di Nino Famà

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Mauro Cesaretti: il videopoeta anconetano.

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Concludiamo l’anno presentandovi Mauro Cesaretti, un esordiente, a nostro avviso, molto originale. In un mondo che va di fretta e dove solo la parola “poesia” sembra un termine anacronistico che rimanda a un’atmosfera ottocentesca, non solo sceglie di essere poeta, ma, addirittura, per promuoversi si inventa una strana arte, la “Body Poetry” mescolando la parola scritta con la recitazione e il ballo creando una sorta di moderno videoclip poetico davvero accattivante. Perciò, cari amici di Letterando, quale modo migliore per finire il 2015 se non con un tocco di originalità? 😉

Per prima cosa vorrei che ti presentassi ai nostri lettori: chi è Mauro Cesaretti nella vita di tutti i giorni? Parlami di te, cosa fai, dove vivi, cosa ti piace fare oltre a scrivere poesie ecc.

Mauro Cesaretti è un ragazzo di 19 anni, trasferitosi a Milano per l’università, ma nato in Ancona. Principalmente la mia passione è scrivere, ma mi cimento in varie attività artistiche: dal pianoforte alla pittura passando anche per il cinema ed altre attività. Per me l’arte è una commistione di varie conoscenze e abilità e per comprenderla al meglio c’è bisogno di provare tutte le sue sfaccettature ed aprire gli orizzonti del proprio cuore.

Hai esordito giovanissimo e in un campo, quello poetico, da decenni rimasto un po’ ai margini. Come mai, quindi, la scelta della poesia?

In verità, non avrei mai pensato di affacciarmi nella poesia, perché tutto è nato per caso quando ero alle medie. Inizialmente non avevo nemmeno l’intenzione di proseguire in quel campo, né di raffinare la mia tecnica, poi ho deciso di utilizzare questa strada come esternazione dei miei sentimenti più profondi e come una “palestra di scrittura”, imparando ad esprimermi enfaticamente con poche parole.

 

A quale poeta ti ispiri e come definiresti il tuo stile poetico?

 

È una domanda che mi viene spesso chiesta, ma alla quale non rispondo. Inizialmente dicevo Dante e Leopardi, poi leggendo sempre di più mi rendo conto che ogni autore mi regala davvero tanto e quindi non esistono ispirazioni, perché io sono io e cerco di trovare il mio unico stile.

 

In questo mondo di libri mordi e fuggi, dove la letteratura si avvicina sempre più al modello fast food, secondo te quale può essere il ruolo della poesia? E, soprattutto, c’è ancora posto per la poesia nel mondo d’oggi?

 

La poesia è ovunque e anche se non si chiama più poesia, se viene chiamata con altri nomi, rimane sempre sotto gli occhi di tutti: dalle metafore convincenti delle campagne pubblicitarie alle frasi di canzoni famose o orazioni del politico di grido in piazza. Per seguire, invece, il discorso della velocità, non ho fatto come Marinetti che abolì aggettivi, avverbi ecc., io ho pensato di ridurre il numero di versi, un po’ sulla scia ungarettiana, creando una poesia istantanea e immaginifica che sia rapida da capire e facilmente imprimibile nella mente, ma con profondi significati celati dietro ad ogni parola o figura retorica.

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Hai iniziato a recitare con il Teatro Stabile delle Marche a sei anni, hai studiato pianoforte e canto e, nell’autunno nel 2013, dopo la pubblicazione il libro “Se è Vita, lo sarà per sempre” edito dalla Montag, hai iniziato un tour letterario in giro per l’Italia insieme al pianista/cantautore Alessandro Pellegrini. Come mai questo  interesse verso altre forme d’arte e per lo spettacolo in particolare?

Perché è il modo più diretto per arrivare al pubblico! Sento ogni giorno il bisogno di portare messaggi carichi di poesia e arte, e credo che dobbiamo smetterla di vedere lo scrittore come un essere isolato che non si fa vedere. Il contatto con le persone è fondamentale! Chi scrive dovrebbe seguire due principi: uno che è quello di dare l’opportunità alla gente di riflettere su temi profondi del loro vivere e l’altro di dilettare. Lo scrittore, se è tale, non dovrebbe che essere maieutico. Lo scrittore, prima di tutto, è un lavoro per il sociale.

 

Ho notato che ti dai molto da fare per promuoverti, in particolare, a mio avviso, utilizzi dei mezzi molto moderni, come la creazione di un canale specifico su youtube per divulgare il progetto della “Body Poetry” (che a me è piaciuta davvero molto). Come è nato il progetto?

 

Il progetto è nato nella mia prima presentazione come una sperimentazione, riutilizzando l’unione di danza-musica-poesia inventata dai greci circa duemila anni fa. Questo mi ha fatto pensare alle grandi potenzialità di un progetto del genere nella società di oggi e di come la poesia non si sia mai strettamente legata alla danza, disciplina artistica di raffinata bellezza. Da ciò, parte prima un’iniziativa youtube e poi la creazione di una nuova disciplina di danza. Tale attività è stata brevettata con tanto di logo nell’agosto 2014. A settembre 2015 abbiamo iniziato ad insegnarla, ma, a causa di una scarsa pubblicità, il corso si è concluso per mancanza di iscritti. Il progetto continua e a gennaio uscirà la Body Poetry Hip Hop e un’iniziativa di video poesia chiamata Istanti. Il nostro più grande sogno è quello di essere sostenuti dal direttore di qualche scuola di danza, per poter avviare un buon corso di Body Poetry.

 

Diversamente da quanto accade per la maggior parte di video postati su youtube, i tuoi video sono di qualità professionale, chi se ne occupa?

 

Io dirigo gran parte del lavoro, ma ogni ruolo è fondamentale dai cameramen, che permettono la realizzazione del clip, ai musicisti, soffermandoci ovviamente su ballerini e attori senza i quali non vi sarebbe l’azione. Contattare tutti, scegliere le scenografie, i messaggi principali da trasmettere e tante altre cose, non è facile, ma non mi arrendo mai perché voglio trasmettere un’opera di qualità.

 

Come è nata la collaborazione con Luca Marchetti, il ballerino che compare nei  video?

 

Eravamo nella stessa scuola, quando ho proposto a Luca Marchetti il progetto e lui entusiasta ha accettato. Certo, il video “Io e te”, fu la nostra puntata 0, poi come abbiamo visto l’interesse degli altri, allora ci siamo sbizzarriti e perfezionati studiando anche il nostro pubblico.

 

Il ricavato delle vendite dell’antologia “12° edizione Autori e amici di Marzia Carocci” è stato devoluto alla lega del Filo d’Oro, nell’agosto del 2014 hai partecipato a una serata di beneficenza in favore della Siria organizzata dall’associazione “Nati per amare insieme”, come mai questo filo che ti lega al mondo della solidarietà?

 

Credo che tutto ciò che ci viene dato, ogni abilità ed ogni conoscenza, debba essere trasmessa. Prima dei soldi, che permettono di perfezionare ovviamente determinate cose o investire su altri progetti, serve amare, amare il prossimo. La cultura ormai o è marketing o è solidarietà e quindi io spero sempre che le persone concedano ai miei progetti di andare avanti ogni qualvolta li incontrino, perché il mio fine ultimo è più grande, è quello della condivisione di frammenti di vita per un benessere di sapienza!

 

Nonostante la giovane età hai ricevuto molti prestigiosi riconoscimenti a livello nazionale e non solo, ti va di parlarcene?

 

Beh, più che “prestigiosi riconoscimenti”, per me sono soddisfazioni che mi fanno capire che sto inseguendo la strada giusta. Essere scelto per delle antologie, o essere chiamato tra i blasonati esperti in eventi in tutta Italia, oppure essere chiamato a fare delle critiche o ricevere regali da persone che mi stimano mi fa molto piacere e penso di essere riuscito a trasmettere i miei messaggi.

 

Quali sono i tuoi progetti futuri, stai lavorando a qualcosa in particolare?

 

È uscito il secondo libro, “Se è Poesia, lo sarà per sempre”, ad ottobre, e lo sto già presentando in giro per l’Italia. cover 2

Usciranno, come detto prima, quelle due iniziative su Youtube a partire da Gennaio e ci saranno altre cose di cui però non voglio svelare niente. Per maggiori informazioni, per propormi iniziative, ecc. scrivetemi sui social (Facebook, Twitter e Linkedin) o sulla mia email poetacesaretti@gmail.com

Cliccando su questo link potrete vedere Fine della notte, una video-poesia di Mauro Cesaretti https://www.youtube.com/watch?v=xg5Kegf3LoA

Qui invece potrete scaricare il pdf e leggere la poesia Una notte priva di sensi Una-notte-priva-di-sensi.Mauro_Cesaretti

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Libro nuovo (2013) Reperto occasionale di Gianni Papa

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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1938) I quarantanove racconti di Ernest Hemingway
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Libro Vecchio (Prima pubblicazione 1869) GUERRA E PACE  di Lev Tolstoj

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Libro Vecchio (in prima pubblicazione nel 1958) Il Gatto0pardo di Tomasi di Lampedusa

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Contro l’odio vince “l’accoglienza”.

pace torre

Dopo i tragici avvenimenti di Parigi avrei voluto scrivere un articolo pieno di rabbia. Rabbia per queste “cosine miserrime” che pensano di riscattare la loro vita grigia vestendo i panni di “martiri”, senza sapere che martire è colui che si fa martirizzare e muore in nome di una fede negata, e non chi martirizza e dà la morte in nome di un Dio che, se potesse, o volesse, lo incenerirebbe all’istante per aver bestemmiato il suo nome.

Ma non intendo cadere nel loro gioco e quindi scriverò un articolo sull’accoglienza. Non mi si fraintenda, non che in questo momento voglia sostenere di aprire le frontiere che sono già da un pezzo belle che spalancate, ma voglio intendere “accoglienza” nel senso più ampio del termine. Accoglienza come accettazione e rispetto reciproco, anche e soprattutto quando non la si pensa allo stesso modo, quando, cioè, sarebbe facile cedere all’intolleranza e sostenere che la propria cultura o religione siano superiori (leggi migliori, veri ecc.) rispetto a quella degli altri.

Accoglienza per me è cercare di comprendere chi non parla la tua lingua, chi non crede nel tuo Dio, o non crede affatto, chi, in breve, non la pensa come te.

pace

Ma si badi bene, questo non vuol dire che una religione valga l’altra, che un modo di pensare valga l’altro, no, anzi, questo è quanto più lontano dall’accoglienza.

Perché per accogliere chi è diverso da te devi prima di tutto sapere chi sei tu, conoscere le tue radici e non lasciarti sradicare dal primo pensiero che ti capita di incrociare per strada. Per questo, lasciatemelo dire, credo che la nostra cultura europea stia morendo. Non solo decimata poco alla volta da questa gentaglia che vorrebbe cancellare con un colpo di spugna millenni di storia, di conquiste sociali, culturali, civili e politiche, mettere il bavaglio alla stampa, uccidere la satira, cancellare i diritti, eliminare la libertà, far soccombere la pace.  E tutto questo allo scopo di imporre la loro non-cultura, la loro non-religione, il loro non-sapere.

Purtroppo però non sono solo loro i colpevoli della morte della nostra società, altrettanto colpevole è chi nega il problema, chi pensa che ci sia ancora tempo e volta le spalle alle grida delle donne jazide rapite e stuprate, ai bambini costretti a diventare guerriglieri, agli uomini sgozzati perché colpevoli di non aver voluto rinnegare la propria fede per scegliere un Dio che dio non è; ché l’Allah cui inneggiano questi imbecilli non ha nulla a che fare con la divinità e forse, anzi, di sicuro, si vergognerà di finire sulle loro bocche.

Il mio grido “vergogna” è anche e soprattutto rivolto a chi in nome di un falso politically correct propone un multiculturalismo che in realtà è un minestrone insipido dove si mescolano pensieri e concetti che nulla hanno a che fare tra di loro e che così combinati perdono la loro forza originaria.

Come non pensare ad esempio all’eliminazione dei alcuni simboli religiosi (presepe, canzoncine e simboli legati al Natale ecc.) in nome di un presunto rispetto della sensibilità altrui?

Chi non ha sentito parlare della scelta di una preside di una scuola di annullare una visita a un museo perché nei quadri erano raffigurati simboli religiosi?

E questo sarebbe rispetto? Chiudere gli occhi di fronte a ciò che è diverso da noi? Il non sapere è rispetto? Ignorare gli usi e costumi di altri popoli è forse rispetto?

Far finta che non esistano le diversità?

Questa è la riflessione con cui vorrei chiudere questo articolo: cos’è davvero il multiculturalismo, inglobare e fagocitare le diverse culture per farne un blob informe senza che le varie componenti siano riconoscibili, mettere la testa sotto la sabbia e far finta che le differenze non esistano o, piuttosto, tenere gli occhi aperti verso il mondo, guardare, ascoltare e provare a capire ciò che è altro da noi?

La meilleur façon  de survivre qui ajoute une dimension de plus à la vie,

c’est d’apprendre à vivre avec les autres, a les écouter;

la tolerance ne signifie pas simplement de tolérer les autres

mais il y va de les connaître, de les comprendre,

de les respecter et peut-être même de les admirer.

Frederico Mayor

(Direttore generale dell’Unesco 1987-1999)

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Davide Bottiglieri – Le cronache di Teseo

Carissimi amici oggi la famiglia di Letterando si allarga e accoglie un nuovo autore che vado a presentarvi.

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Nome: Abraham Tiberius Wayne (alias Davide Bottiglieri)
data e luogo di nascita: 28 aprile del 1992. Salerno (Italia)
segno zodiacale: Toro
blog: Abram Tiberius Wayne
Nonostante la sua giovane età ha già una collezione di riconoscimenti di tutto rispetto:
– Premio Letteratura Italiana Contemporanea nel settembre 2014, indetto dalla Laura Capone Editore con la quale compie il suo esordio editoriale con la silloge Poeti Contemporanei.
– Nel 2014 viene inserito nella collana Riflessi della Pagine Editore.
– Nel maggio 2015 vince il XII Concorso di Poesia d’Amore ” Tra un fiore colto e l’altro donato” indetto dalla Aletti Editore.
– Nel luglio 2015 viene pubblicato nell’omonima silloge.
– Vince il concorso “Cronache dalle terre oscure”,con tre racconti brevi fantasy.
– Nell’agosto 2015 viene pubblicato nell’antologia Felicemente Horror vincendo la selezione proposta dal noto blog letterario Pegasus.
– Sempre nell’ottobre 2015 risulta finalista del concorso “E’ già autunno!” indetto dalla Montegrappa Edizione e viene inserito nella XVII raccolta antologica “Les cahiers du Troskij Cafè”.

Davide è nostro ospite perchè voglio presentarvi il suo libro:

Le cronache di Teseo

Racconti – Edizioni Les Flaneurs

Authore: Abraham Tiberius Wayne (Davide Bottiglieri)

€ 2.99

“Un libro che raccoglie sei racconti dedicati all’eroe greco Teseo. Un fantasy dall’anima ellenica”.

Un libro che raccoglie sei racconti dedicati all’eroe greco Teseo. Un fantasy dall’anima ellenica”.
È proprio così che si presenta questo libro che si legge veloce e con piacere. Davide ci racconta le prove che si trova a dover affrontare Teseo per dimostrare di meritare il trono in successione al padre.
È un viaggio fantastico che l’autore descrive poggiando sulle basi della mitologia classica arricchendo di particolari fantasiosi che ne alleggeriscono il peso e animano di avventura. Molti sono i nomi di dei, semidei, eroi, e altre figure, più o meno moti a tutti, che hanno popolato i racconti epici e che l’autore mette a intralciare il cammino dell’eroe, a volte per aiutarlo nelle sfide altre volte per mettere a prova la sua forza, la sua saggezza, la sua umanità e il suo valore di uomo e di guerriero al fine di forgiare la figura ideale di sovrano. È così che l’autore ci consegna l’immagine di un re esemplare: un sovrano ideale.
Le scene di lotta sono ben descritte e le atmosfere che ne emergono sono in perfetta sintonia con l’epoca riuscendo tuttavia ad evocare immagini fantastiche che scivolano in paesaggi degni della classica narrazione fantasy e quello che io definirei l’universo fantastico.

“La raccolta mira a interessare lettori adolescenti! La mitologia classica è bellissima, tuttavia non sempre la si fa apprezzare a dovere nei licei (io per primo l’ho amata tardi); inoltre c’è da aggiungere che non si tratta di una lettura semplice perché spesso appesantita dagli intervalli filosofici che ne rallentano un po’ il ritmo. Ho provato a riproporre degli episodi che ho trovato affascinanti, in una forma più appetibile all’adolescente di oggi (gli scontri e la violenza non sono mai mancati nell’epica classica), facendo attenzione a non alterare la storia e le caratteristiche del mito: in pratica, ho cercato di trovare una chiave di avvicinamento alla letteratura greca per chi non la digerisce ancora nella sua forma originale”.

.
Quindi un libro adatto a tutte le età, molto originale che noi di Letterando consigliamo e vi consigliamo anche di tenere d’occhio questo autore emergente che non mancherà di regalarci ancora sorprese e successi.

Loredana Conti e i colori del suo “mondo di mezzo”: tra rosa e giallo.

cover

Scheda sintetica

Titolo: I Nomi delle Rose Selvatiche
Autore: Loredana Conti
Editore: Kindle Direct Publishing, 2015
ASIN: B012778NGG
Genere: romantic suspanse

Link d’acquisto:

http://www.amazon.it/gp/product/B012778NGG?keywords=i%20nomi%20delle%20rose%20selvatiche&qid=1442915420&ref_=sr_1_1&sr=8-1

Sinossi
Claudia e Luca.
Giovane e selvatica, lei, al suo primo impiego come fotografa in un prestigioso giornale. Cronista investigativo, lui, ha fatto della ricerca della verità la sua missione.
Divisi dall’età e dall’esperienza, un’attrazione incontrastabile li riconduce, dopo ogni scontro, l’uno nelle braccia dell’altra, a rischio della loro stessa vita. Luca, suo malgrado, trascinerà Claudia, nelle sue indagini sul “mondo di mezzo”, nel buio dei segreti, degli informatori, delle cronache di Mafia capitale.
Ma una rosa selvatica non si può possedere. Si può godere della sua bellezza soltanto lasciandola attaccata alla sua pianta; soltanto rinunciando ad essa. Così, combattuta tra la volontà di proseguire sulla strada che ha scelto per sé e quella che il destino gli spalanca davanti, Claudia dovrà scegliere…
A volte il destino ha soltanto bisogno di essere aiutato.

Estratto
Claudia si sentiva sull’orlo di un precipizio: qualcosa la avvolgeva, una normalità che non poteva esistere. Seducente, bella. Forse più bella dell’avventura di cui voleva ricoprire la sua vita. Il canto della sirena? Sì, Luca era una sirena. Da cui tenersi a debita distanza.
(…)
Ma lo desiderava? Quanto sforzo prendersi in giro! Lei desiderava soprattutto stare con lui. Possibilmente ogni secondo. Tutte le sue battaglie interiori per l’indipendenza le parvero all’improvviso delle vere ipocrisie. Stava bene con lui, cominciava a sentirsi adulta, importante. Sapeva che poteva imparare molto.

Biografia

Imprenditrice romana, Loredana Conti è riuscita a far convivere insieme un gatto bianco, un cane nero, un amato marito. E questo spiega anche un po’ la genesi dei suoi personaggi così contrastanti, che finiscono sempre per amarsi.
D’altronde si è formata sui libri di Rudolf Steiner e Aivanhov, dai quali ha preso ispirazione per le pillole di saggezza che si trovano spesso a corollario dei suoi libri.
Ha già pubblicato, sempre in formato ebook su Kindle Store di Amazon, la serie “Laura: L’avventura dei sentimenti nell’età di mezzo”.
“I nomi delle rose selvatiche” è il suo terzo romanzo.

Per saperne di più sull’autrice

Comunicato stampa:

http://www.informazione.it/c/05835807-409E-4A02-8B38-ABB869FB6E6F/Amore-e-Mafia-capitale-ne-I-nomi-delle-Rose-Selvatiche-il-romance-suspense-che-racconta-anche-l-attualita

Goodreads:

https://www.goodreads.com/book/show/26511829-i-nomi-delle-rose-selvatiche?from_search=true&search_version=service

Pinterest gallery:

Le avventure romantiche di Laura Bellini

Biografia

foto lauraLaura Bellini nasce qualche decennio fa a San Piero in Bagno, un paesino adorabile dell’Appennino Tosco-Romagnolo. Vive in una casa molto affollata insieme a due cani e un gatto. Scrive per passione e legge per amore. Le sue pubblicazioni sono tutte disponibili su Amazon, in formato ebook o cartaceo. I suoi precedenti romanzi sono: “Il coraggio dell’amore” (2009), “Lontano da te” (2010), Ancora tu” (2010), “I disegni imprevedibili del destino” (2011) e “Il mondo dopo te” (2012) “Il gioco dei ricordi” (2013), “Quel nome portato dal vento” (2014), A-Mors (2015). L’eco del tuo respiro (2015)

L’eco del tuo respiro

Sinossi

Maggio 1383 Aliénor Dumont è rassegnata a sposare Adam Moreau, ma l’incontro con il destino cambierà le sorti di un intero regno mettendo in gioco le vite delle persone a lei più care. C’è solo un modo per evitare che chi ama soccomba e Aliénor non esita a sacrificare se stessa pur di donare un futuro alla sua famiglia.

Diciotto anni più tardi Arwen, erede al trono, percorre la strada che dall’assolata capitale conduce al freddo nord, pronta a conoscere il suo promesso sposo per coronare il sogno del padre di vedere le famiglie Moreau e Dumont unirsi. Lungo la strada però, due occhi violetti le rapiscono il cuore. Ismael e Arwen, due cuori destinati ad appartenersi. Il loro amore però nasce sotto una cattiva stella. I due conoscono solo parte del passate del regno in cui vivono. Arwen è promessa al fratello di Ismael, loro erediteranno lo scettro che un tempo apparteneva a una famiglia scomparsa nella furia della guerra che ha devastato il regno anni prima della loro nascita. Una guerra scatenata dall’amore, l’unico sentimento in grado di cambiare le sorti di un intero popolo. E sarà l’amore a guidare le scelte dei due ragazzi. Essi si amano e si perdono, ma niente sarà in grado di minare il sentimento che li lega. La forza dell’amore travolge i giovani ragazzi innescando una lotta dall’esito incerto contro il destino.

In questo romanzo si racconta il coraggio di un amore che riesce a resistere alla vita, che abbatte ogni ostacolo pur di guadagnarsi il diritto a essere vissuto. Si narra il sacrificio, perché non c’è gesto di amore più grande.eco

Estratti

Arwen sentì il cuore stringersi, se avesse potuto seguire il suo istinto, si sarebbe alzata e l’avrebbe abbracciato così forte da togliergli il respiro.

Le mancava. Nessuna notte con Robert avrebbe mai potuto sopperire la sua assenza o darle più piacere di quanto ne provava solo respirando l’odore di Ismael anche da lontano.

Arwen pensava di svenire, il dolore che quella confessione le fece esplodere nel petto era insopportabile. Avrebbe preferito morire in quello stesso momento piuttosto che comprendere la portata di quella dichiarazione. Aveva il respiro corto e faticava a mettere a fuoco le immagini. Abel le si avvicinò toccandole un braccio che lei scansò in malo modo. Non sopportava la vicinanza di quell’uomo.

«Io lo amo con tutta me stessa, Abel. Lo amo tanto da poter rinunciare a lui se questo significa salvare la sua vita.»

«Non andartene» lo pregò la principessa ignorando la presenza di Abel.

«Devo» rispose con un sorriso amaro. «Ma quando l’inverno sarà finito tornerò.»

«Ismael» pronunciò quel nome sottovoce sfiorandogli la mano con le dita. «Io ti amo.»

Lui restò immobile con il cuore che sussultava nel suo petto, se le avesse risposto non sarebbe più stato in grado di lasciarla andare. D’altro canto non poteva non farlo, lui amava Arwen con tutto se stesso. Le strinse le mani e incurante della presenza del padre la attirò a sé per baciarla.

«Ti amo anche io Arwen» ammise con la fronte poggiata alla sua. «Ti amo e ti prometto che tornerò.»

Dove acquistare il libro

 http://www.amazon.it/Leco-del-respiro-Laura-Bellini-ebook/dp/B014T2XKJW/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1443772491&sr=8-1&keywords=l%27eco+del+tuo+respiro

Quel nome portato dal vento

Sinossi

Ieri: la famiglia McTavish, nobile e influente stirpe del regno di Seaworld, viene sterminata da un nemico misterioso e sopravvivono soltanto i due fratelli Diarmaid e Duncan che, una volta fuggiti, vengono protetti e salvati dalle creature fatate dei boschi. Oggi: Maeve è l’erede dei Grahm e sta per andare in sposa a suo cugino Logan Frey, l’arrogante erede del nord del regno. Tuttavia, Maeve non può nascondere l’attrazione e il sentimento che la legano a Ryan, soldato semplice agli ordini di Lord Grahm. La differenza di status impedisce la loro unione e i due non possono che rassegnarsi al loro destino. È proprio il destino, però, a cambiare le carte in tavola quando Lord Grahm viene assassinato, Maeve rapita e Ryan accusato di omicidio. Sarà allora che il passato travolgerà il presente con le sue spire e riporterà in superficie il nome che i nemici avevano tentato invano di cancellare: quello della famiglia McTavish.

Quel nome portato dal vento è l’affresco eterogeneo di un regno in cui pace e guerra si fondono e i confini tra bene e male si assottigliano. Maeve, eroina forte e indimenticabile, capirà che l’amore non ha un unico nome e che non lo si può definire e, attraverso di esso, troverà il coraggio per affrontare il dolore e per affermare se stessa fino all’imprevedibile, sconvolgente finale.

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Mio padre ha ragione, dovrei considerarmi fortunata, non desiderare ciò che non potrò mai ottenere. Fra meno di un mese sposerò uno dei più ambiti ragazzi del Regno, le nostre casate governeranno i due terzi di Seaworld, i nostri figli erediteranno tutto questo e io non ho il diritto di lamentarmi.

Proprio mentre sto chiudendo le pesanti tende in velluto rosso, Ryan alza lo sguardo verso me, i suoi occhi mi tengono incollata alla sua figura. Abbasso piano le palpebre e una lacrima scende veloce sulle mie guance.

Fra pochi giorni non lo vedrò più e allora dimenticherò il suo viso, sorriderò di questa infatuazione e il mio cuore smetterà di fare male.

Lui ride, lo stelo di erba con cui mi ha solleticato poco prima infilato in bocca.

«Mi fai una promessa?» Chiede voltandosi su un fianco in modo che io non possa eludere i suoi occhi.

Sorrido. «Non posso prometterti qualcosa che non so.»

«Dona la tua verginità a chi vuoi, fallo con il tuo futuro marito o con l’uomo che dici di amare, ma poi fai l’amore con me.»

Mi si secca la gola, non trovo le parole per rispondergli. Mi stendo accanto a lui e gli accarezzo i capelli, le nostre labbra sono vicine, ma lui non si muove. Allora lo faccio io, le poso con cautela sulle sue, faccio scorrere la punta della lingua su quei petali di rosa, le mordicchio e d’improvviso mi trovo sopra di lui; la sua mano che mi trattiene la nuca, le nostre bocche incollate in un bacio che sembra non avere fine.

Vorrei che tutto questo durasse per sempre. Mi fermerei in questo spiazzo erboso con Jack fino alla fine dei miei giorni, gli darei dei figli; ma non è la vita che lui vuole. Mi troverei sola dopo qualche anno ad attendere un suo ritorno con l’incertezza di non rivederlo mai più. È questo il bello di Jack, la sua totale e irrefrenabile voglia di libertà.

«È un sì?» Mi domanda senza smettere di baciarmi.

«Vedremo» gli rispondo sorridendo.

Sono felice. Accanto a lui dimentico ogni cosa, i problemi non esistono e io non sono più Maeve Grahm, erede delle terre di mio padre. Non so più chi sia Diarmaid, meno che mai Logan Frey e non conosco il motivo della mia fuga da casa. Qui, fra le sue braccia io sono semplicemente Maeve e questo mi riempie l’animo di vita.

Dove acquistare il romanzo

http://www.amazon.it/Quel-nome-portato-dal-vento/dp/8897810403

Paola Ferrero: tra danza, canto, pittura e scrittura.

Paola Ferrero

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Biografia

Nata a Torino nel 1969 sotto il segno del Leone, ma concepita a New York per uno strano disegno del destino, mi è capitata in sorte una famiglia con autore. Ho sempre amato la lettura e la scrittura di rimando. Come anche la danza, il canto e la pittura.

Dopo aver riempito pagine e hard disk di lavori di ogni genere, ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie “Parole d’amore insano” con Liberodiscrivere, editore genovese free – raccolta precedentemente selezionata da Il Filo, con cui non ho accettato di pagare per pubblicare – nel 2009.

Oltre a questo romanzo breve sono autrice di un secondo lavoro semifinalista al torneo di GEMS 2013, una romantica storia fantascientifica, e di un terzo romanzo di narrativa-drammatica che era in finale al “Cinquantesimo Marcelli”. Sto lavorando alla seconda raccolta di poesie, ho finito il quarto romanzo di cui sto curando l’editing, ho progetti per altri romanzi e gestisco due blog.

A seguire questo romanzo dovrebbero venire altri due dello stesso genere, il primo dedicato ai sentimenti e a un imprevisto abuso sessuale, il secondo alla malattia e morte della madre della protagonista.

Di tutt’altro genere gli altri progetti. Denominatore comune è solo l’ampio spazio dato ai sentimenti e al cambiamento.

Dipingo ancora. Amo la cucina, gli animali e guardare il cielo. Leggo sempre e di tutto, scrivo sempre e ovunque.

Romanzi

Gli Attimi in cui Dio è musica

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Questo mio è un romanzo breve, circa 212mila caratteri, narrato in prima persona da una diciassettenne che vive nella provincia di Torino negli anni ’80.

La sua vita viaggia su due binari. Da una parte c’è la quotidianità di una famiglia distrutta, con una madre abbandonata e una sorella che pare un’estranea; lavorano duro per pagare debiti e usurai, perse nelle nebbie della pianura contadina, schiave di un minimarket che procura loro il minimo indispensabile. Dall’altra parte c’è il suo sogno di fare la ballerina e di vivere una vita diversa, c’è il suo tragitto quotidiano in treno fino a Torino, dove studia e compie i primi passi verso una carriera difficile ed effimera.

Nella sua storia ci sono amici con cui condivide la pendolarità, altre persone con cui sogna di sfondare, altre ancora con cui intreccia relazioni solo in parte sentimentali. Ciò che conta è la musica e la possessione che lei sperimenta sul palco. C’è un’audizione per il primo spettacolo importante, c’è la fatica delle prove e la magia del debutto. Ci sono tutti gli attimi che lei fotografa con cura, la sua vita.

I capitoli non hanno un titolo o, meglio, lo hanno tutti uguale. Tre puntini di sospensione che vogliono sottolineare “l’istantanea” di ogni momento vissuto in questa avventura. Tante polaroid che compongono un mondo in cui lei deve vivere la sua adolescenza, il suo sogno nel momento in cui la vita le permette almeno di tentare di realizzarlo.

Ad accompagnare la sua avventura c’è una colonna sonora, venti brani che riportano a quegli anni e che potrebbero essere usati nelle eventuali presentazioni, creando eventi live unici e irripetibili.

Il genere è narrativa, può essere visto come memoir più che come romanzo di formazione. Ad apprezzare maggiormente il testo, finora, è stato un pubblico femminile, (anche di persone del settore dell’editoria) prevalentemente adulto.

Il romanzo ha partecipato alla scorsa edizione del Premio Calvino. Punto di forza, secondo il comitato di lettura, è la leggerezza che sfiora l’edonismo. La ripetitività descritta nell’alternarsi tra una vita e l’altra, in un certo qual modo voluta appunto per sottolineare il sentito della protagonista, sembra invece il punto debole.

Essendo fortemente autobiografico, il materiale non mi è mancato.

Iniziato come un esercizio per affrontare la pagina vuota – scrivendo la prima cosa che mi veniva in mente – ha subito preso forma come un tributo alla danza e a ciò che ha significato nella mia vita, con tutti gli episodi “puri” che ho vissuto nel tentativo di realizzare quel sogno, sopravvivendo a tutto il resto. I personaggi di contorno sono stati rimescolati tra loro onde evitare che qualcuno pensasse di ritrovarcisi. Così anche i tempi e i luoghi sono romanzati, ma veri.

Scheda libro

Gli Attimi in cui Dio è musica, Lettere Animate 2014

Formato ebook, a partire da 1,99€

Formato cartaceo, prezzo di copertina 10€

Acquistabile

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Racconti

La caccia

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All’interno di un privè, Wendy, da abile cacciatrice, sta cercando qualcuno. Mentre vaga tra uno scenario e l’altro, nell’eccitazione che le ruota intorno, riesce a individuarlo e ad attirare la sua attenzione. Lui è Michael, il vampiro che sta cacciando e che deve eliminare. Ma la notte avrà dei risvolti inaspettati, perché Wendy cadrà nel più appagante fallimento della sua carriera.

Racconto erotico di circa 20 pagine, il primo di una serie, incentrato su una setta di cacciatori di vampiri e le loro missioni non sempre riuscite.

Scheda

La caccia, collana “Carnet erotique” per Lettere Animate, 2015

Formato ebook, offerta estiva a 0,49€

Acquistabile

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L’altra donna

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L’incontro tra Loretta e Laura fa scattare la rabbia di Loretta, donna tradita per l’ennesima volta . Eppure Laura non sembra reagire all’aggressione, tanto da rimanere vittima di un incidente. Da quel momento per Loretta e per Andrea inizia un incubo. L’assenza della giovane amante non migliora le cose tra loro, ognuno preso dai propri fantasmi, incapaci di ritrovare l’armonia che c’era in precedenza. Nel silenzio vanno avanti, consumandosi entrambi. Le colpe, l’amore, le solitudini che insieme accompagnano e dividono la coppia. Con un piccolo colpo di scena finale. Storia d’amore e di fantasmi, linguaggio esplicito e introspezione.

Un racconto di 20 pagine che unisce la ghost story al thriller psicologico.

Scheda

L’altra donna, collana “I nuovi brevissimi” per Lettere Animate, 2015

In ebook, offerta estiva a 0,49€ su tutte le piattaforme.

Acquistabile

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Altre informazioni utili

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Dieci cose da tenere presenti quando si scrive una scena di sesso

Bottega di narrazione

Corsi di scrittura creativa Il bando 2015-2016 1. Assicuratevi (parlate con l’editore, col tipografo, con la cartiera, con la legatoria) che le caratteristiche fisiche del libro nel quale apparirà la scena di sesso permettano di reggerlo con una mano sola per un tempo sufficiente.

2. Siate coerenti nel registro linguistico. Se scrivete “Egli infisse l’obelisco nel bosco sacro”, poi potrete scrivere anche “Egli piantò l’aratro nel solco della Madre Terra”; ma non potrete scrivere “Lui le infilò il coso nella cosa”.

3. Le scene di sesso non sono compatibili con l’ironia. Se scrivete “Beppe aveva un’eiaculazione così precoce che fu assunto all’ufficio Previsioni del tempo”, nessun lettore poi vi prenderà sul serio quando porterete Beppe a letto con la biondona dei suoi sogni (al massimo, vi accuseranno di aver rubato la battuta a Woodie Allen, o l’idea al saggio di Isaac Asimov sulle proprietà endocroniche della tiotimolina risublimata).

4. Non siate autobiografici. Il vostro…

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PARAFRASANDO PER SOMMI CAPI (by lettera di Renzi)

Oggi ho parlato ai miei figli:vacanza-in-auto-colorato
Tesori miei,
tra qualche giorno io e vostro padre partiremo in vacanza, da soli, per una breve pausa (5 giorni-4 notti, ma solo perché un last minute, ma solo perché costa pochissimo, ma solo perché con prima colazione e basta, ma solo perché ci si arriva in macchina).
Mi permetto di dire, sfidando le vostre proteste: vacanza molto meritata.    Sì, meritata. Perché se mi volto un attimo indietro e provo a ripercorrere il cammino di questa mia vita, resto stupita pensando alle cose che ho portato a casa.
Lo dico senza giri di parole: ho fatto un lavoro straordinario ed è giusto me ne prenda il merito. Sempre le mamme italiane, da che mondo è mondo, in anni e anni di storia, lavorano così tanto e così intensamente che nessuno mai immagina –da sole – così tante ore.
Provate per un istante, per un solo istante, a metterle in fila.
Approvata in via definitiva la prima gravidanza: il lavoro oltre l’ottavo mese (con la pancia che non entra più in macchina) per un po’ di tempo in più dopo, la corsa alla prenotazione del nido-e/o asilo e/o scuola primaria e/o scuola secondaria, la riforma della spesa e del bilancio famigliare con la riduzione delle spese superflui, con gli 80 euro ben amministrati copro le tasse il resto lo gestisco con l’abbattimento della vita sociale, il bonus bebè mi solleva dal costo dei pannolini e, noi mamme che siamo brave, con quel che avanza facciamo prevenzione, del divorzio breve ce ne freghiamo quello è cosa da ricchi. Il pacchetto assicurativo per la vostra tutela e la nostra serenità, la prima (e unica) casa (con mutuo ventennale) per l’ambiente sicuro, la cooperazione tra famiglie per la gestione dei vostri spostamenti in gruppo(nuoto, calcio, danza, partita, compleanno ecc. ecc), la responsabilità di una buona educazione, la continua riforma delle abitudini in funzione della vostra crescita, la gestione di ogni pratica in formato elettronico, i primi terrori sulle uscite serali, le corse urgenti per coprire il deficit dei mezzi, le quarantatré(mila) crisi esistenziali risolte, lo sblocco degli scarichi e delle fogne (a ogni temporale si intasa tutto), gli accordi con le banche per arrivare a fine mese, i prestiti, i parenti e Vaticano. I bonus della spesa, le raccolte punti la corsa all’offerta della settimana, i saldi di fine stagione.
É un elenco buttato giù a memoria e da subito voglio scusarmi con vostro padre che non ho incluso ma che è al mio fianco (per fortuna resiste) e che ha seguito altri impegni che non ho citato.
Inutile ribadire che avete sempre da ridire sull’inadeguatezza di ciò che faccio anche se supero con grande visione e senso del dovere il passaggio (molto difficile per i motivi che ben sapete) crudele della vostra adolescenza. Se questo è un esame di maturità, lo sto superando con la lode (fin che lucidità mentale me lo consente).
E’ in corso di valutazione la ristrutturazione della casa per nuovi spazi per voi, il terzo bagno, le scuole all’estero, la sicurezza in casa, l’estinzione del mutuo, la vostra vita sul dopo di noi. Elenco anche questo parziale.
Dopo che la famiglia si era allargata nel sogno della felicità, perché tutti sappiamo (anche quelli che fingono di essersene dimenticati) che se si è cambiato stile di vita è perché l’amore aveva colmato il cuore al punto tale da dover sfociare in altre vite. Quest’anno – visto che siete abbastanza grandi – faremo una pausa.
E vorrei essere chiara: non fateci pentire.
La nostra assenza non dovrà essere più un problema del vicinato ma contribuirà a farvi crescere: la vostra maturazione permette margini di manovra fino a un punto di indipendenza da mamma e papà.
Il costo della vita cresce soprattutto al nord, come dimostrano anche i dati di oggi. Gli investimenti non si possono fare, crolla il conto in banca e aumentano i debiti, segno che il bilancio famigliare non è in attivo. I consumi crescono, i posti di lavoro sono ancora incerti.
Detta in modo semplice: stiamo resistendo come un anno fa, e lo dobbiamo anche grazie al vostro sacrificio.
Io debbo e voglio dirvi grazie: anche se non sempre mi dimostrate la vostra fiducia (personale e famigliare) e se cerco di tenere sempre accesa la macchina della speranza è perché io continuo a crederci anche quando non è semplice farlo.
Ma non posso, non possiamo accontentarci. Se abbiamo fatto tutta questa strada in quasi vent’anni, vi immaginate dove potremo essere ad agosto 2016? E chi lo sa? Allora, lasciateci godere queste vacanze. Perché alla ripresa ci sarà da correre ancora più forte. Per la ripresa dell’anno scolastico e i libri e gli abbonamenti dei mezzi e i compiti e le assemblee ecc. ecc., concretizzare tutti i vostri sogni – che già stanno diventando realtà – è l’idea dominante. Ma soprattutto sbloccare le tante reticenze e diffidenze, le tante energie scoraggiate, i tanti talenti inespressi. Voi non vi rendete conto di quanto il mondo vi ami e si aspetti da voi il meglio. I milioni di nuovi amici del villaggio globale chiedono Made in Italy, prodotti di design, esperienze culturali e turistiche, le emozioni che la vostra generazione riesce a regalare. Abbiamo molto da fare, ma non ho intenzione di fermarmi finché avrò forza e coscienza. Poi toccherà a voi proseguire con determinazione verso il futuro che vi sta già aspettando.
Mamma.

10363718_939424692772931_689260281877936841_n  Monica Bauletti

Maria Lidia Petrulli e l’infanzia.

Biografia

Nata a Roma il 08/04/1957, residente a Quartu Sant’Elena (CA).

Medico psichiatra e psicoterapeuta.

Appassionata di storia e mitologia celtica e medievale.

Bibliografia

Viaggio ad Avalon, Pietro Chegai editore, Firenze, 2002

Fara e il suo Cappello, Il Foglio Letterario Ed., 2009

La Realtà e il suo Enigma, 0111Edizioni, 2009

Il Buio Oltre Lo Specchio, 0111 Edizioni, 2010

Il Volto Segreto di Gaia-La Cerca, Edizioni Il Ciliegio, 2013

Il Volto Segreto di Gaia- L’Equilibrio e la Luce, Edizioni Il Ciliegio, 2014

Emilie Sanslieu, Edizioni Il Ciliegio, 2014

Classificata tra i 10 finalisti del concorso letterario Linguaggi NeoKulturali con il romanzo Le Chiavi Del Tempo

2° classificata al premio letterario Città di Dolianova 2014, con la raccolta Frammenti Dimenticati

4° classificata al premio letterario Camuni Graffiti Narrativa, con il romanzo Il Volo Della Libellula

1° classificata premio Il Litorale 2015 col racconto LA BAMBINA CHE VOLEVA ESSERE TRASPARENTE

cover La bambina che voleva essere trasparente

LA BAMBINA CHE VOLEVA ESSERE TRASPARENTE

ANTOLOGIA

PREFAZIONE DELL’AUTRICE

Nulla di quel che viviamo va perduto. Un’immagine, un odore, una parola sussurrata e appena udita, tutto va a finire nel calderone della memoria, fra gli ologrammi che si imprimono come tanti puzzle scomposti. Finché un evento anche banale, un pensiero, una scena rievocata, fa scattare una delle tante serrature, e allora tutto torna, ci svolazza intorno, si depone ai nostri piedi e l’immagine, l’esperienza originale si propone sotto una veste del tutto nuova. Imprevedibile.

Nascono così questi racconti, dove passato, presente e futuro stringono fra loro un’alleanza, elementi fondamentali del tempo che non trascorre come pensiamo, un tempo capace di fermarsi e di aspettarci. Finché ce ne sia bisogno.

Maria Lidia Petrulli

ESTRATTO 

Quando divento trasparente, posso finalmente rilassarmi e dedicarmi alla mia passione: osservare. Mi piace osservare tutto, da un paesaggio alle scene per la strada, ma soprattutto mi interessa spiare gli adulti. Perché sono speciali, una fonte continua di sorprese. Mi incuriosiscono le smorfie sulle loro facce mentre discutono e tentano di imporre le loro idee, o di dimostrare quanto queste siano migliori delle altre, perché i grandi non lo sanno, ma le smorfie mostrano quello che pensano e che provano davvero, anche quando mentono e credono che gli altri non se ne accorgano. In effetti, non credo che siano molti gli adulti capaci di leggere il significato delle smorfie. E poi mi piace tantissimo vedere come arrotolano la lingua nella bocca, la maniera che hanno di impostare le labbra se devono annunciare qualcosa che credono importante, come accavallano la gamba, come la rimettono giù per accavallare l’altra. Mi diverte il modo con cui schizzano gli occhi a sinistra e a destra per accertarsi che gli altri li stiano guardando, non importa chi, basta che ci sia qualcuno che lo faccia. La mimica degli adulti è un’opera teatrale. Io me la godo tutta, come se fossi al cinema. È stato grazie alle mie osservazioni se sono giunta a una verità indiscutibile: gli adulti detestano passare inosservati, per loro essere trasparenti è il peggio che gli possa capitare. Significa non esistere.

L’IRIS ALBINO (estratto)

L’indaco degli iris di mare punteggiava la sabbia bianca, si intrecciava con i tentacoli polposi di quelle che lei chiamava rose del deserto, e Alisanna si chinò a osservare i loro steli impettiti come soldatini, che terminavano con quella corolla che ricordava una corona. Fra i tanti, ce n’era uno diverso, un piccolo iris albino. Sembrava così fragile e alieno. Alisanna lo sfiorò con le dita e pensò che avrebbe potuto sfilarlo facilmente dalla sua alcova fatta di granelli e cristalli di quarzo, le radici non avrebbero opposto resistenza e lei l’avrebbe messo a seccare fra due fogli di carta assorbente, per poi infilarlo fra le pagine di un libro. Invece lo lasciò dov’era.

Quell’iris solitario in mezzo all’indaco, era la perla rara che doveva ispirare i sogni, il vento che doveva soffiare via i momenti che stagnano, ma che nessuno dovrà mai trovare o cercare di arrestare, imprigionare o imbrigliare, re del suo reame di cose preziose e singolari, quelle che apprendono la bellezza della diversità.

Alisanna si allontanò saltellando e canticchiando una canzoncina, verso l’orizzonte e con il pallone recuperato in mano. Correva sulla riva, schizzando con i piedi nudi la spuma della risacca, senza mai perdere di vista il cormorano che galleggiava sulle acque quiete, né il cirro bianco che la seguiva come un aquilone.

Un aquilone. Un paio d’ali con cui fare a gara con le aquile, una scheggia di colore lanciata nell’azzurro per indicare la sua presenza: “Sono qui, esisto anch’io, sono un punticino, una girandola, una corolla d’iris, e ho il mio regno, si trova in fondo al mare, laggiù, nella città dimenticata dove nascono le sirene”.

I BAMBINI DELLA LUNA (estratto)

Io non ho capito perché ci odino tanto da volerci distruggere, non ci eravamo mai incontrati prima di allora. Qualcuno mi ha detto “perché siamo diversi”, ma io non ho visto nessuna differenza fra noi e loro. Non capisco il significato di parole come “etnia”.

Ricordo che non riuscivo più a muovermi, di aver pensato che non ero io a decidere, che per me avrebbe deciso il destino. Per un momento ho cessato di esistere.

Poi lei mi ha strappato al caos, la mia barca senza rotta, il mio timone, mi ha conteso con la morte e non ha lasciato la presa, tenace come solo le madri sanno essere, e non si è più guardata indietro, forte della scintilla di vita accesa nel suo ventre. Il suo cuore singhiozzava i piccoli fiori che le erano stati strappati e l’amore che li aveva generati, ormai ridotti in frammenti di carne senza più forma, senza un corpo da seppellire e poi piangere; ma lei ha girato le spalle al dolore, non gli ha permesso di strapparle il futuro, oltre al passato. Si è aggrappata alla mia mano, virgulto che teme di perdere l’unica bussola che gli è rimasta, e al germoglio annidato nelle sue viscere. È andata avanti.

http://www.ibs.it/code/9788864663012/petrulli-m-lidia/bambina-che-volava-essere.html